“La via d’uscita è la vita”. Sulla director’s cut de I giorni dell’eclisse

Aleksandr Sokurov, I Giorni dell’eclisse – director’s cut, 2025, 112′.


Conosco poche espressioni così belle come quella che usa Jean-Louis Schefer quando in L’homme ordinaire du cinéma parla dei «film che hanno riguardato la nostra infanzia». Perché una cosa è imparare a guardare i film in modo professionale – per verificare poi che così sono loro che ci ri/guardano sempre meno – e un’altra cosa è vivere con quei film che ci hanno guardato crescere e che ci hanno visto, ostaggi precoci della nostra futura biografia, già impigliati nella rete della nostra scoria. Psyco, La dolce vita, Il sepolcro indiano, Rio Bravo, Pickpocket, Anatomia di un omicidio, Shin Heike Monogatari (t.l. Nuovi racconti del Clan Taira) o appunto Notte e nebbia non sono per me film come altri. Alla domanda brutale: «sono qualcosa che ti riguarda?» mi rispondono tutti sì.1

Serge Daney, Lo sguardo ostinato

Fino a pochi minuti prima dell’anteprima mondiale della director’s cut de I giorni dell’eclisse (1988) di Aleksandr Sokurov, il 5 novembre, non si sapeva nulla di questa “nuova” versione del film. Pare che il regista l’avesse completata poco meno di un mese prima della proiezione (si può attribuire quindi la comunicazione raffazzonata del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e Pop Up Cinema Bologna, così come il lavoro mediocre sui sottotitoli italiani, al poco tempo a disposizione). L’autore russo è intervenuto tagliando una ventina di minuti dal minutaggio originale (139′) e aggiungendo alcuni momenti più o meno rilevanti. Il grosso dei cambiamenti sta nel lavoro sui colori, sull’atmosfera, sul suono, sull’aggiunta di una scena tra i titoli di coda; a questo si aggiunge il restauro in 4K che già di per sé restituisce una pellicola dall’impatto clamoroso.

Senza voler tentare di aggiungere qualcosa di originale alle parole di grandi autori che hanno dedicato i loro studi a Sokurov (da Jampol’skij a ghezzi, da Rancière a Pezzella) e si sono ovviamente rivolti a I giorni dell’eclisse, trovo importante dare ancora uno sguardo all’opera di Sokurov con la scusa di questa speciale occasione. Certi artisti, con le loro opere, stanno , che si voglia rivolgere direttamente a loro lo sguardo oppure no; viviamo in una quarta dimensione con loro, si situano in strati della pelle e dell’immaginario che non sono sempre visibili ma sono compresenti. È forse questa presenza costante, ecco, che ammorbidisce sé stessa. Basta passare un panno appena imbevuto d’acqua sulla superficie del baule ed ecco che il tesoro sta ancora lì, luminoso senza un solo granello di polvere.

(Ri)guardare I giorni dell’eclisse per la prima volta fa affiorare un grande pensiero, o forse srotola il fil rouge dei numerosissimi pensieri maturati in quasi 2 ore. Si parte con un velivolo che si fionda a gran velocità su questa terra così ingiallita da confondere la causa con l’effetto: sono tutti malati e quindi l’aria è malsana, sulfurea, necrotica, oppure l’aria è malsana, sulfurea, necrotica, e quindi sono tutti malati? Chi impedisce a Sokurov di tacere a tal proposito? E chi gli impedisce di colorare invece alcuni esterni, forse a ricordare che non tutto è malato in quel post? E poco dopo chi gli impedisce invece di tinteggiare di giallo asfissiante proprio quel luogo che prima non lo era?
Le prime immagini di quel luogo sembrano provenire da un documentario: sguardi in macchina sorridenti e spaesati, indifferenti o attratti dall’occhio meccanico. Un mezzo plongée grandangolare su Maljanov che scrive. Poi si torna alla ripresa documentaria, con ingrandimenti e rimpicciolimenti improvvisi. Colore. Seppia. Giallo. Poi un altro grandangolo da una posizione impensabile sul lavoro di questo scrittore-scienziato.
C’è qualche regola che impedisce a Sokurov di abbracciare o rifiutare quel che Ejzenstein chiamava montaggio delle attrazioni? Pare di no.
Qualcosa che gli impone di seguire una corretta alternanza di giorno e notte?2
Qualcosa impedisce all’autore di utilizzare un tappeto sonoro folklorico e di spostarsi poi su musiche elettroniche e poi su un più classico repertorio di musica colta, a volte sovrapponendo anche i brani? Non sembra.
Sente qualche pressione, il regista, nel colorare di intensi toni rossi alcuni corpi sulla pellicola ingiallata (e non ingiallita)? E sente qualche pressione nel ritornarvi dopo quasi quarant’anni dando ancora qualche colpo di pennello qua e là, ravvivando la fiamma delle sue immagini in movimento? Probabilmente no. Così Leonardo portò con sé la Gioconda per anni e continuò a ritoccarla fino alla morte.

Dissolvenze incrociate, punti di vista impensabili, bianco e nero e seppia e colore e giallo e rosso in alternanze non definite (come invece accade in Tarkovskij, ad esempio), personaggi che compaiono e poi scompaiono, volti che si affiancano ad altri in prospettive rovesciate, lineari, centrali o oblique. Giallo oro e giallo itterico, ritratti d’icona e ritratti deformi; e poi ancora morti che parlano e vivi zombificati. C’è qualcosa che frena la mano di Sokurov dall’adoperare tutte queste variazioni, questa dodecafonia (seguendo un’osservazione di Fredric Jameson) in cui a ogni nota viene attribuito un valore assoluto e la cui funzione è sensibilmente diversa che la si suoni con un pianoforte o con un violino? C’è qualche regola, lassù nelle stelle, su come adoperare tutti questi strumenti? Perché un regista non dovrebbe intervenire su una sua opera vecchia di 40 anni e aggiungere qualche frase fuori campo durante una scena del suo film? Era forse troppo ermetica? E se troppo eloquente un’altra scena, perché non tagliare qualche scambio di troppo? C’è un limite di colori che una tavolozza dovrebbe poter ospitare? E i pennelli? Quanti? 2? 5? 25? E se ci fosse bisogno di un’altra tela da affiancare alla principale, perché un autore non dovrebbe acquistarla o fabbricarla? E se le sue dimensioni non fossero combacianti con la prima sarebbe questo forse uno squilibrio nell’opera finita? Le domande non sono mica terminate: passare al prossimo paragrafo è una pausa per chi scrive, non per chi legge.

Mi dico che il villaggio in cui si trova Maljanov è stato costruito in forma di modellino per facilitare le riprese aeree e risparmiare budget prezioso. E invece a un certo punto una torcia/faro illumina le case di notte sostituendosi alla luna – sono alieni? Quindi erano alieni anche quelli del velivolo di inizio film… È per questo che il villaggio è stato ricostruito sotto forma di modellino. Non ne sono sicuro, non si capisce bene3. Un effetto posticcio ma non troppo, accettabile per il primo film finanziato da fondi statali per un autore che aveva già 36 anni e un bel po’ di produzioni indipendenti (e non proprio gradite dai piani alti) alle spalle. A un certo punto un effetto speciale (vecchio quanto il cinema) torna su quel modellino: Maljanov vi cammina sopra, gigante tra le case che ha abitato per tutto il film. Il modellino si palesa come modellino; una dissolvenza incrociata lo fa sparire e lascia l’arida pianura turkmena in cui Sokurov ha girato il film. Qualcosa gli ha fatto pensare che non potesse adoperare un modellino come scenografia reale e poi la sua scenografia come modellino reale? No, no e ancora no.

Svetlana Alpers notava come in uno degli ultimi ritratti di Rembrandt (altro maestro del giallo) la mano del pittore fosse sparita in favore di una sorta di arto multiuso: il pittore non sembra tenere in mano i suoi strumenti. I suoi strumenti sono la sua mano4. Ne consegue una pienezza espressiva che non fa differenza tra il colore miscelato e lo sputo o il sangue, lo sfumino o un pollice, un’ombra o un solco graffiato col manico del pennello. Tutto è pittura per Rembrandt, a un certo punto, è la sua mano a parlare, non la pittura o la storia della pittura. E così per Aleksandr Sokurov, il quale potrà pure parlare come letterato o guardare e post-produrre come pittore; quel che resta, però, è che pensa come filmmaker (parola che uso in mancanza di un corrispettivo italiano che renda l’idea dell’atto materiale di girare un film), unico tra i filmmaker ad adoperare con così tanta insistenza ed equipollenza il suono, l’immagine, il montaggio, il (non)colore, la composizione, le parole (qualcuno gli ha forse impedito di far parlare, nel film, un soldato in latino per qualche secondo? O di far passare in radio una messa in italiano? Evidentemente no), le musiche, il movimento della cinepresa, finanche la durata stessa del film e dello sviluppo della sua narrazione.

Perché sembra assolutamente chiaro che per Sokurov l’atmosfera, quella manifestazione non ben identificata che lavora sull’accumulo, che tutti percepiscono e che si esprime sottopelle, valga più d’ogni altra cosa, e che 110 minuti di atmosfera siano giustificati perché riscattati dalla scena più importante del film, quella in cui Maljanov trova un bambino e si prende cura di lui, molto più di quanto non abbia fatto per tutta la durata del film con i suoi pazienti. Con apprensione paterna si assicura che il piccolo mangi, che stia al caldo, che non abbia mal di testa. Che viva insomma. Perché questo Faust ante-litteram (nelle note di regia Sokurov faceva già certi paragoni, 30 anni prima del suo Faust) è scisso tra la sua tensione artistica di scrittore e le circostanze avverse del suo ruolo di medico in un mondo post-apocalittico che rifiuta il progresso e tende a una piatta proporzione tra l’aumento dell’entropia e l’aumento della conoscenza. E non sa come uscirne fino a quel momento. Scopre però una verità molto semplice, una a cui Sokurov e lo sceneggiatore Jurij Arabov credono più fermamente di ogni altra cosa, al punto da sovrapporsi finalmente al loro protagonista: la via d’uscita è la vita, e l’arte come reiterazione virtualmente infinita della vita, perché «Questi film sono come l’acqua che leviga le pietre»5.

Anche a 74 anni Sokurov crede in questa via d’uscita. I titoli di coda della director’s cut de I giorni dell’eclisse sono in realtà ancora parte del film: uno schermo nello schermo si palesa e vediamo una platea contemporanea uscire dalla sala dopo aver visto il film. A filmare i volti di questi ragazzi e ragazze giovani che si fermano a dare un’ultima occhiata prima di abbandonare il cinema è Alexander Zolotukhin, studente e pupillo di Sokurov, regista di A Russian Youth e Brother in Every Inch. Alcuni chiacchierano; altri mettono la giacca in silenzio e vanno via; altri ancora scrivono un messaggio a qualcuno; e nel frattempo l’acqua leviga le pietre. Esce anche un volto conosciuto: Aleksej Ananišnov, l’attore non professionista che ha interpretato il protagonista del film e poi quello di Madre e figlio (1997). Ha 63 anni adesso, il volto scavato da rughe (l’aveva già “profetizzato” il bambino del film) ma lo stesso sorriso e gli stessi capelli di Maljanov. Non ha recitato in altri film nella sua vita. Ad attenderlo c’è il settantaquattrenne Sokurov che gli mette una mano sulla spalla e gli chiede «Come stai?». Non si vedono da 30 anni. «Teniamoci in contatto, non sparire», gli dice il maestro. Ananišnov gli fa un cenno e un sorriso, poi va via. Sparisce.

Detto questo, si esce tutti dalla sala come una mise en abyme al contrario in cui replichiamo quell’ultimo momento, ci facciamo immagine del film e non il contrario. Quel film ci ri/guarda perché noi siamo, per un istante, film. Pietre levigate dall’acqua, siamo anche acqua che leviga le pietre, prima di sparire.


BIBLIOGRAFIA

1Serge Daney, Lo sguardo ostinato, Milano 1995, p. 27.
2«La mattina (ma potrebbe anche essere sera)» scrive Sokurov esponendo il racconto nelle sue note di regia, in Stefano Francia di Celle, enrico ghezzi, Aleksej Jampol’skij (a cura di), Aleksandr Sokurov. Eclissi di cinema, Torino 2003, p. 231.
3«O forse sono io che non ho capito qualcosa?» Ibidem.
4«La mano del pittore è rappresentata attraverso quella che […] potremmo chiamare la sua funzione di strumento» in Svetlana Alpers, L’officina di Rembrandt. L’atelier e il mercato, Torino 2006, pag. 30. Dell’opera e della mano-strumento di Rembrandt si è parlato anche in questo articolo.
5Stefano Francia di Celle, enrico ghezzi, Aleksej Jampol’skij (a cura di), Aleksandr Sokurov. Eclissi di cinema, cit., p. 19.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.