Eccomi con il primo capitolo di “Tra Cinema e Pittura“, la rubrica in cui metterò a paragone ed analizzerò scene, frames, sequenze di film con opere pittoriche alle quali i registi si sono ispirati per le loro pellicole.
Il film che prenderò in esame è “Sogni“, del 1990, scritto e diretto da Akira Kurosawa.
La pellicola è composta da 8 episodi, collegati tra loro da una linea temporale rappresentata dal personaggio principale, inizialmente bambino, infine anziano(alter ego di Kurosawa), spaziando tra vari temi quali l’importanza delle tradizioni, la stupidità del genere umano che distrugge la natura e quindi se stesso,il senso di colpa, l’importanza di una vita onesta e semplice, tra situazioni grottesche e oniriche messe in scena con una mostruosa tecnica registica, fotografica e scenografica. Prenderò in esame il quinto episodio del film, intitolato “Corvi“, in cui Kurosawa omaggia direttamente Vincent Van Gogh.
Il sogno si apre con il protagonista che ammira e contempla alcuni tra i più famosi quadri di Van Gogh, quali la “Notte stellata” e i “Girasoli“, fino a perdersi(letteralmente) in uno di questi. Qui inizia la sua ricerca del pittore, dopo aver avuto notizia della sua dimissione dal manicomio. Lo trova intento a disegnare un paesaggio, preso da una foga simile a quella di una locomotiva(come dice lo stesso Vincent, interpretato da Martin Scorsese nel film), simbolo dell’irrequietezza che ha caratterizzato tutta la vita e la produzione artistica del pittore. Van Gogh dice di sentirsi in forma e di non aver tempo da perdere con il viaggiatore e va via. Il protagonista lo segue passando attraverso(letteralmente) i quadri dell’olandese, fino ad arrivare in un campo di grano, oltre il quale la sagoma del pittore scompare in lontananza lasciando spazio ad uno stormo di corvi allertati da un colpo di pistola. Il suono di una locomotiva riporta il viaggiatore alla realtà.
Il sogno dunque si apre con una diretta esaltazione della produzione artistica di Van Gogh, che oserei definire “il più orientale degli occidentali“, tramite una carrellata orizzontale che ci rende turisti e ammiratori insieme al protagonista, soffermandosi per qualche secondo su diversi quadri dell’artista.
La macchina da presa si ferma su una delle versioni di una serie di quadri intitolati “Il ponte di Langlois“, dipinto tra Marzo ed Aprile del 1888, subito dopo l’arrivo di Van Gogh ad Arles.
La peculiarità del quadro è dato dalla tecnica pittorica e dall’approccio del pittore verso l’ambiente.
L’intenzione di Vincent era quella di adottare uno stile quanto più vicino a quello delle amate xilografie giapponesi, attraverso uno studio del colore, dei tratti e della distribuzione delle forme nello spazio. Il quadro si mostra infatti estremamente curato nella forma, privo delle tipiche pennellate libere e istintive degli anni precedenti al 1888, con una distribuzione degli elementi simmetrica e geometrica. Van Gogh inoltre per la prima volta, come scriverà a suo fratello Theo, applicherà uno studio cosciente del colore sulla tela, tramite l’utilizzo di colori complementari, distribuiti secondo un ordine ragionato e schematizzato. Ciò che viene fuori dunque è un opera nata dalla quiete e disciplina mentale dell’olandese, che raggiunge picchi altissimi di qualità tecnica ed espressiva, creando una scena degna dei più bei paesaggi nipponici in stile ukiyo-e.
La ricerca del pittore non si ferma qui. L’artista si cura addirittura di descrivere a parte come sarebbe dovuta essere la cornice del quadro: color blu ed oro.
Il valore di queste scelte non è solo da inquadrare come evoluzione artistica del pittore, ma come fulcro di questa prima parte dell’articolo.
Vorrei portare all’attenzione infatti il rapporto tra l’arte di Van Gogh e quella Giapponese, arrivati a questo punto a sfiorarsi, a diventare due parallele artistiche e stilistiche. Il rigore e la dolcezza della pittura di Van Gogh, ispirato dagli artisti orientali, eterea sebbene decisa, si proietta nella dolce e perfetta regia di Kurosawa, che a sua volta riporta “il più orientale degli occidentali“ nella terra dei ciliegi.
“Non si potrebbe studiare l’arte giapponese, mi sembra, senza diventare molto più sereni e più felici: dobbiamo ritornare alla natura, nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro in un mondo convenzionale. … Invidio ai giapponesi l’estrema nitidezza che tutte le cose hanno presso di loro. Nulla vi è mai noioso, né mi sembra mai fatto troppo in fretta. Il loro lavoro è semplice come respirare: essi fanno una figura mediante pochi tratti sicuri, con la stessa disinvoltura come se si trattasse di una cosa semplice quanto abbottonarsi il panciotto.”

Il protagonista si trova dunque catapultato nell’ambiente di Arles, riprodotto pedissequamente da Kurosawa e dal suo staff, a partire dall’inquadratura, per poi passare alla fotografia, alla scenografia. Il regista si pone come “pittore” del dipinto stesso, attraverso quella che è la tela di un cineasta: La macchina da presa.
La resa fotografica ripropone l’ambiente candido del dipinto, con colori morbidi, chiari, con una dolcezza che solo l’Arte orientale(e Van Gogh di conseguenza) sapeva dare.
Kurosawa da vita ad un quadro, ricreandolo nei minimi dettagli e assecondando il movimento di corpi che l’arte di Van Gogh proponeva attraverso pennellate veloci, massicce, ricche di pigmento, uscenti quasi dalla cornice stessa del quadro, dando vita ad un’opera già viva sulla tela.
Il giovane turista, dopo esser stato abbandonato da un frettoloso Van Gogh, parte all’inseguimento del pittore, attraverso la Arles dipinta da Vincent, tra spesse e corpose pennellate di colore, carboncini, lingue di fuoco e casette di paglia.
Il protagonista dunque lo raggiunge e lo vede scomparire in quel campo di grano dove un colpo di rivoltella scatenerà uno stormo di corvi impetuoso e minaccioso.
“Campo di grano con volo di corvi” è uno dei dipinti più conosciuti di Van Gogh, se non il più conosciuto; Indubbiamente quello che più di tutti ha fatto discutere critici e studiosi.
Qui la tecnica pittorica si allontana dallo stile orientale tanto quanto la mente del pittore si allontana dalla serenità trovata nei primi mesi dopo il suo arrivo ad Arles. Le pennellate si fanno più violente, nervose, il colore più saturo, i contrasti più accentuati(mai si è vista in un’opera di Van Gogh un distacco così grande a livello cromatico tra due zone della tela), il pigmento più corposo, il sentimento di angoscia e disperazione diventa padrone di un dipinto che raccoglie in sé la confusione mentale del pittore e lo comprime in tratti vorticosi e neri corvi, visti dagli storici dell’arte come rappresentazione:
- Del cattivo presagio dato dallo stormo che vola verso il pittore
- Di buon presagio dato dallo stormo che si allontana dal pittore
La parte superiore del dipinto schiaccia letteralmente il campo di grano nella sua presa oscura e minacciosa, con un cielo color nero pece che si muove verso il basso quasi come se stesse coprendo il blu, l’azzurro, il giallo e tutto il resto.
Kurosawa prende una posizione decisa riguardo l’interpretazione dell’opera tramite la messa in scena “vivente” del quadro, che, a differenza della sequenza che ho trattato in precedenza, assume il ruolo di espressione del pensiero del regista riguardo l’arte e il personaggio di Van Gogh.
Mentre in precedenza la riproduzione pedissequa dei dipinti era un limpido omaggio all’artista e alla sua produzione, qui abbiamo un’assimilazione del quadro e una chiara interpretazione del pezzo.
Un colpo di pistola scatena i corvi che circondano il viaggiatore, paralizzato dalla potenza della natura scatenatasi in un’inquadratura che ripropone esattamente la composizione del quadro di Van Gogh, ma non la sua struttura cromatica. I colori infatti rimangono coerenti con quelli della scena sul ponte di Langlois: chiari, morbidi, in pieno stile Giapponese. I corvi appaiono dopo lo sparo, e il quadro viene “dipinto” da Kurosawa dopo la morte di Van Gogh, invertendo il processo(anche a livello di montaggio) che, all’inizio di questo sogno, ha portato il protagonista ad entrare nei dipinti. Con questa inquadratura infatti ha termine il viaggio dell’alter ego di Kurosawa nelle cornici e nei pigmenti di uno dei più grandi pittori della storia dell’arte.
Questi uccelli dunque non hanno più valore di presagio di morte, bensì di liberazione da tutte le sofferenze e dall’irrequietezza di Vincent.
Gli altri due elementi importantissimi sono legati al sentiero che percorre Vincent prima di sparire all’orizzonte. Anche qua il regista vuole trasmette chiaramente la sua idea riguardo la faccenda. I due sentieri laterali non hanno inizio e non hanno fine, a differenza di quello centrale. Ed è proprio quello che percorre il pittore, arrivando alla fine di esso e scomparendo nel campo. La fine del sentiero, la fine dello spazio pittorico, la fine della vita.
Il cielo non è nero, non è cattivo, non è tempestoso. E’ limpido, azzurro. Di quell’azzurro che ricorda Hokusai. Etereo, piatto, infinito. La morte di Van Gogh ha portato bel tempo in quei campi che gli apparivano scuri e angoscianti nell’ultimo periodo della sua vita. Quei campi che aveva tanto amato e che aveva riprodotto in centinaia di disegni e dipinti.
Kurosawa omaggia Van Gogh regalando lui un quadro che, probabilmente, avrebbe voluto dipingere se solo la pressione della sua psiche non lo avesse divorato dall’interno e non si fosse imposta così prepotentemente sulla sua produzione.
Un quadro di cui Van Gogh sarebbe stato fiero.
In conclusione, “Corvi” è probabilmente la più grande dimostrazione d’amore del Giappone verso colui il quale più lo ha amato.
Un omaggio del regista “più occidentale degli orientali” verso il pittore “più orientale degli occidentali“.
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