[TRA CINEMA E PITTURA] Sogni, pt2: Akira Kurosawa incontra Katsushika Hokusai

Eccomi con un nuovo capitolo di “Cinema meets Painting“, la rubrica in cui metterò a paragone ed analizzerò scene, frames, sequenze di film con opere pittoriche alle quali i registi si sono ispirati per le loro pellicole.

Il film che prenderò in esame è “Sogni, del 1990, scritto e diretto da Akira Kurosawa.

Mentre nella prima parte ho analizzato il rapporto visivo e sensoriale tra la regia di Kurosawa e la pittura di Van Gogh, in questa analizzerò un altro episodio tratto dal film, per il quale il cineasta Giapponese ha tratto ispirazione da uno dei più famosi artisti nipponici del periodo a cavallo tra la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del IX secolo: Katsushika Hokusai, che in molti probabilmente ricorderanno per “La grande onda di Kanagawa“, realizzata tra il 1830 e il 1831, facente parte della serie di xilografie chiamate “Trentasei vedute del Monte Fuji“.

Il protagonista si trova ai piedi del monte Fuji che, eruttando, assume un colore rosso intenso. Una marea di persone cerca invano di salvarsi e di scappare verso il mare, unica via di fuga, ma inesorabile vicolo cieco verso la morte. L’alter ego di Kurosawa si unisce a loro e si ritrova su una spiaggia con un ingegnere nucleare, costruttore di una centrale atomica ai piedi del Monte, una madre e i suoi due bambini. La centrale, distrutta dalla lava, emana nubi mortali e radioattive. Mentre l’ingegnere scompare nelle acque, il protagonista tenta di scacciare via i gas mortali dalla donna e dai suoi figli.

Il sogno si apre con una scena quasi apocalittica, rossa in tutte le sue sfumature, caotica, disastrosa. Sullo sfondo di un mare di persone vi è il Monte Fuji, di un rosso più intenso del fuoco stesso e più minaccioso delle più terribili delle calamità.
Ciò che separa l’operato di Hokusai da quello di Kurosawa indubbiamente è il diverso contesto storico, che porta la sostanza delle intenzioni a conclusioni diverse, pur partendo da interessi comuni.
La funzione della serie di tavole di Hokusai è da cercare in un contesto più ampio, ovvero nell’insieme totale delle 36(successivamente ne saranno aggiunte 10) xilografie delle “Vedute del Monte Fuji“, prodotte per elogiare in primis un elemento cardine della cultura nipponica, il suo vulcano, ma soprattutto per inserire in esso un microcosmo che è quello della vita quotidiana in Giappone. 46 vedute del monte in diversi momenti dell’anno e in diverse condizioni atmosferiche fanno quindi da sfondo per quella che è la vita di tutti i giorni, vissuta tra attività che si diversificano a seconda del ciclo della natura.
Ciò che risalta dunque è la piccolezza dell’uomo davanti ad essa, senza venir meno all’armonia di una vita vissuta non sopra, non sotto, ma dentro la natura.

Ciò che fa Kurosawa in “Sogni” non è altro che una riproposizione dei concetti sopra esposti, attraverso il filtro di un ottantenne che ha vissuto gli orrori della guerra e l’impetuoso sviluppo tecnologico, che lo ha portato a maturare una sorta di pessimismo cosmico.

La scena che costruisce il regista dunque non ha nulla di diverso dalle scene proposte da Hokusai tra il 1821 e il 1833. Allo stesso modo abbiamo la rappresentazione del microcosmo umano ai piedi del Monte Fuji, imponente, poderoso, sacro. Il rosso in questo caso non è dato dalla condizione atmosferica, ma dall’esplosione di una centrale nucleare nei pressi del vulcano, che, con i suoi fumi e lapilli, colora il cielo di un rosso scarlatto e di un nero pece.

Kurosawa critica aspramente lo stile di vita tipico del Giappone post-seconda guerra mondiale, il suo voler innalzarsi al di sopra della natura, l’adozione di parte della cultura occidentale, l’entrata di prepotenza del capitalismo e delle nuove strutture tecnologiche. In questo quadro la natura non è più lo sfondo armonioso dentro al quale gli uomini si muovono ed agiscono, ma un ambiente minaccioso che stabilisce la sua predominanza attraverso forse che costringono l’uomo a scappare, conscio della loro inarrestabilità.
Ancora una volta ciò che colpisce della tecnica registica è l’imponenza delle inquadrature, la solennità con la quale vengono mostrate le immagini, la perfetta divisione degli spazi che non lascia comunque intendere che ci sia un briciolo di equilibrio tra i piccoli uomini e la sacra montagna.
Il regista conosce bene l’illustratore, e si attiene alla composizione dell’immagine tipica dello stile ukiyo-e, con la sua compostezza e forma, ma ne modella la sostanza, evidenziando quanto due elementi della composizione, pur essendo ugualmente grandi, differiscono nella loro funzione all’interno del quadro.
La sequenza diventa una nuova xilografia delle vedute del Monte Fuji, da considerare come diretto seguito ed evoluzione della visione del Giappone e del suo stile di vita, logorato dall’abbandono sempre più evidente delle tradizioni che hanno mantenuto per secoli interi usi e costumi di una nazione nata e cresciuta nei suoi spazi, chiusa in se stessa.
Che sia un bene o un male, è ognuno di noi a deciderlo.

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