Il film che prenderò in esame è “Il ritorno“, del 2003, scritto da Vladimir Moiseenko e Aleksandr Novotockij-Vlasov e diretto da Andrej Zvjagincev.
Il ritorno è un film freddo, cattivo, apatico, distaccato. Lo spettatore è costretto a guardare questa storia di formazione atipica, raggelante, raccontata attraverso gli occhi di due fratelli, il cui legame sarà indispensabile per non cadere in un crollo fisico e psicologico in questa storia dal passo lento, inesorabile.
Due giovani fratelli, Vanja e Andrej, sono molto attaccati l’uno all’altro, forse per sopperire alle difficoltà di un’infanzia vissuta senza padre. L’improvviso ritorno del genitore dopo dodici anni di assenza scuote le esistenze dei due ragazzini. Con il riluttante assenso della madre Vanja e Andrej si imbarcano in quella che credono essere una vacanza di pesca con il taciturno e misterioso genitore.
La prima cosa che colpisce dell’opera è la struttura prospettica, innovativa per il tempo(dipinto tra il 1475 e il 1478), che porta lo spettatore ad effettuare un percorso visivo dal basso verso l’alto, attraverso il corpo contratto del Cristo fino ad arrivare alla sua espressione, che tocca picchi altissimi di drammaticità. Elementi anatomici quali piedi e gambe sono volutamente distorti(risultando più corti e piccoli) per evitare che la posizione delle linee prospettiche costringessero a rappresentare i piedi in primo piano, che avrebbero dato una sensazione di dispersione del focus visivo, posto al centro della tela grazie appunto a questa distorsione. Il drappeggio e l’enfasi posta sull’anatomia e sul chiaroscuro aumentano il pathos della scena, creando una figura statuaria, possente, in una condizione estremamente tragica, sola in un ambiente volutamente spoglio che accentua la centralità del soggetto all’interno della storia raccontata da Mantegna.
Scolpì in pittura.
Zvjagincev introduce il personaggio del padre con estrema accuratezza rispetto al quadro di Mantegna, attenendosi al suo stile cromatico e chiaroscurale. La paletta infatti si sviluppa su poche sfumature di uno stesso colore, contrastate dalla luce proveniente da destra. La situazione di dramma costruita dal Mantegna si trasforma in ansia dovuta all’introduzione di un personaggio mai visto prima nel film, dormiente nella casa dei protagonisti ed identificato come padre dei due ragazzi, tornato a casa dopo 12 anni, senza nessun accenno alla sua storia.
La funzione del personaggio come Cristo è stata da me concepita in seguito ad altre due sequenze per me particolarmente significative
Una di queste è la ricostruzione del Cenacolo, all’interno della quale il padre spezza il cibo e versa il vino ai membri della famiglia.
La seconda, molto più importante, è la riproposizione della sequenza di introduzione del personaggio nella situazione inversa: la morte(o meglio, l’uscita di scena dell’attore nel film), carica dello stesso pathos e della drammaticità del quadro del Rinascimentale.
Il fatto che la struttura del film sia basata su un viaggio di formazione della durata di 7 giorni è indispensabile per poter interpretare il film in chiave Cristologica, tramite un personaggio dai tratti dicotomici che rimandano alla natura divina ed umana del Cristo, trasposto però in una storia crudele e fredda, in cui questi tratti vengono portati fuori tramite comportamenti violenti e subito dopo amorevoli verso la propria progenie, tramite atteggiamenti tipici di un padre e allo stesso tempo incomprensibili dai due ragazzi come da noi spettatori, assolutamente allo scuro di tutto ciò che c’è dietro alla figura del personaggio, presente per formare ma non per spiegare ed essere compreso.
In conclusione il lavoro di Zvjagincev non assume un ruolo di mera esaltazione della produzione artistica del pittore, ma di chiave di lettura di un intero film, la cui peculiarità è quella di essere fatto della sostanza di Cristo, ultraterrena ma allo stesso tempo di carne.
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