[TRA CINEMA E PITTURA] "Lost in translation": Sofia Coppola incontra John Kacere.

Eccoci con un nuovo capitolo di “Tra Cinema e Pittura“, la rubrica nella quale metteremo a paragone ed analizzeremo scene, frames, sequenze di film con opere pittoriche alle quali i registi si sono ispirati per le loro pellicole.

Il film che prenderemo in esame è Lost in translation – L’amore tradotto(Lost in translation), del 2003, scritto e diretto da Sofia Coppola.

L’artista che prenderemo in esame è John Kacere.

Lost in translation è un film silenzioso, malinconico, nel quale i due personaggi(tra cui uno splendido Bill Murray) vivono un’esperienza segnata dalla solitudine, dalla dispersione, dall’inadeguatezza.
Inadeguatezza che viene coperta dalla presenza di qualcuno che riesce a completarli, o almeno a dare questa parvenza, complice le comuni situazioni ed esperienze, simili ma allo stesso tempo diverse.

Nel film le parole non hanno significato, il mix costante tra una lingua incomprensibile – il giapponese non a caso – e l’incomunicabilità dei sentimenti rende la pellicola un concentrato di sensazioni che devono essere vissute più che ascoltate.

Coppola esplora la nascita e la crescita di un rapporto, nel quale ci si scopre sempre di più e ci si avvicina, lasciando andare tutte le pressioni, le paure, lo spaesamento della vita in un luogo come il Giappone, sovraccarico di luci, insegne, traffico, caos, esaltando i contrasti e sottolineando i desideri e i sogni irrealizzati e abbandonati dopo essere stati imbrigliati in un meccanismo che ha paralizzato la vita dei due.
La prima inquadratura del film richiama(e ricalca) un’opera di John Kacere(1920-1999), artista americano tra i principali esponenti del fotorealismo(sebbene prima degli anni ’60 abbia avuto un percorso legato all’espressionismo astratto).
Facciamo una piccola digressione sul fotorealismo, grazie alla quale ci si potrà approcciare diversamente all’opera in questione.
Il fotorealismo nasce come corrente reazionaria(nel senso positivo del termine) negli anni ’60, in opposizione alla sempre più crescente importanza dei media e alla loro incalzante presenza nella vita di tutti i giorni, arrivando a surclassare gli strumenti di rappresentazione visiva.

Inoltre nasce come opposizione all’arte contemporanea fatta di essenzialità e ampia disquisizione sui temi di opere che quasi mai fanno sfoggio di virtuosismi tecnici, concentrandosi sul concetto piuttosto che sulla forma. Un ritorno all’antico insomma, un “neo-neoclassicismo“.
Ciò che contestualizza questa corrente nel suo tempo è l’utilizzo della fotografia come strumento di ricerca compositiva e concettuale, trasposta attraverso tecniche pittoriche che fanno dell’abilità tecnica il loro punto di forza. Abilità tecnica portata all’estremo, come chiara critica all’arte concettuale che spesso e volentieri è prodotta senza una vera abilità(alla base) da parte dell’”artista”, indispensabile per poter giustificare la scelta dell’annullamento di essa.

In altre parole, l’arte concettuale può, a mio modesto parere, essere tale solo se alla base vi è una qualità tecnica consolidata, atta a rendere credibile la scelta dell’artista di abbandonare i canoni classici/accademici delle arti visive. Senza tale base, l’arte concettuale diventa un prodotto che viene elevato solo ed esclusivamente dalla speculazione, spesso fastidiosamente intellettualoide, che accompagna tale prodotto.


I fotorealisti si pongono l’obiettivo di riportare in auge l’importanza dell’abilità tecnica nel prodotto artistico, applicandola però ad un periodo storico nel quale ci si può servire di strumenti(la macchina fotografica) e forme d’arte(la fotografia) che diventano complementari alla ricerca e alla produzione artistica. Un ritorno alla natura morta e al ritratto, sostanzialmente.
Un ritorno anche alla condizione dell’artista non visto come una macchina commerciale da soldi, il cui compito è produrre lavori su lavori. Le opere fotorealiste richiedono tantissimo tempo e dedizione, nonché una ricerca di base di grande complessità. Come i grandi artisti del passato.
Autore: John Kacere
Titolo: Jutta
Data: 1973
Tecnica: Acrilico su tela
Dimensioni134.6 x 199.5 cm

La produzione artistica di Kacere, dagli anni ’60 fino alla sua morte, si concentrerà su uno stesso spazio del corpo della donna, dai fianchi fino alle ginocchia.

“Woman is the source of all life, the source of regeneration. My work praises that aspect of womanhood.”
“La donna è la fonte di tutta la vita, la fonte della rigenerazione. Il mio lavoro elogia quell’aspetto della femminilità.”

Il dipinto è chiaramente una natura morta, senza di fatto esserlo.
La natura morta è la rappresentazione di oggetti inanimati, come fiori, frutta, oggetti vari. Ciò che l’artista rappresenta non può dunque essere considerata una natura morta. Eppure lo schema compositivo non rimanda ad una rappresentazione ritrattistica, complice la composizione orizzontale che dispone i vari elementi della scena in modo non differente da numerosissimi dipinti rappresentanti vari cesti di frutta, selvaggina ecc.
L’assenza di espressività, di emozioni che traspaiono da parti del corpo come le mani, il volto nel suo complesso, porta l’analisi dell’opera a concentrarsi sulla scelta del vestiario, della posa, del movimento.

La figura donna mostra una chiara dicotomia tra innocenza e viziosità, senza essere però volgare. Gli indumenti sono quasi trasparenti, elementi che alludono al nudo ma non lo mostrano esplicitamente. La posa richiama una condizione di rilassamento, che, insieme alla scelta stessa della porzione di corpo rappresentata, unita alla disposizione delle gambe, allontana lo spettatore da pensieri maliziosi.

Il focus va sul dettaglio, su ogni piega, sull’immaginazione della mente di chi guarda, che, trovandosi davanti ad un corpo rappresentato da così vicino, non può fare altro che domandarsi chi sia, perché sia in quella posizione, che aspetto abbia il suo volto e quale sia la sua storia. John Kacere quindi, concentrandosi su un solo aspetto della femminilità e del corpo della donna, porta gli altri a costruire intorno allo spazio pittorico tutto il resto, senza però concentrare sull’esterno il suo interesse(da notare le grandi dimensioni dell’opera, essenziali per poter concentrare l’occhio dell’osservatore non sull’insieme ma sui dettagli, che vengono analizzati singolarmente uno dopo l’altro).
Piccola nota: l’artista non lavorare come la maggior parte dei fotorealisti/iperrealisti. Procedeva per strati, e non per dettagli. Il che consentiva lui di mantenere più possibile una composizione armonica e proporzionata, data la grande dimensione del piano di lavoro

Questa natura “non-morta” racconta quindi più della semplice apparenza e del semplice voyeurismo, ma cerca di contrapporre a quella che potrebbe sembrare una posa provocante, un concetto diametralmente opposto, cioè l’ingenuità ed innocenza di un semplice corpo femminile, privo di qualunque metafora maliziosa, ma pregno della sua essenza di “creatore della vita”.

Sofia Coppola usa la prima inquadratura del film per impostare quello che sarà l’intero tono della storia raccontata, sfruttando tutti gli elementi inseriti in una breve carrellata orizzontale, che svela poco più dello spazio oltre i fianchi e le ginocchia.
Il minimalismo della scena è palese, con pochi colori, niente movimento e un ambiente provo di qualsiasi decorazione, quasi monocromatico. Lo sguardo dello spettatore si concentra quasi completamente sugli spazi fuori dal campo, “a causa” del breve e lento movimento di macchina che “finge” di voler mostrare il personaggio inquadrato. A livello narrativo questo espediente ha un forte impatto e non poca importanza. Ci viene presentato un personaggio che di fatto non ci viene presentato, creando suggestioni nel fruitore che portano a chiedersi di chi sia il corpo in questione, e dando pochissimi indizi, quali la giovane età e sensazione di calma e tranquillità della scena(inoltre l’accompagnamento musicale della scena esalta l’ambiente pacato e rilassato della calda camera d’hotel).

L’occhio percepisce ciò che c’è oltre l’intimo, ma di fatto non lo vede, e questa sarà una sensazione costante durante il film, nel quale vedremo diverse scene che alludono ad eventi che non ci vengono palesemente mostrati. E non si parla di eventi solo inerenti alla sfera sessuale, in quanto questa inquadratura rimanda a ciò che Kacere espresse col suo lavoro, ovvero la rappresentazione mai viziosa e carica di malizia. L’occhio dello spettatore vanno oltre gli sguardi, oltre le parole, oltre i gesti. Il corpo che vediamo qui non fa altro che mostrare un’impostazione strutturale/narrativa che si ripeterà come un pattern per tutta la durata della pellicola. I due personaggi sono attratti tra loro, e agiscono in un continuo gioco di sottile malizia e prepotente innocenza, di calore e freddezza d’animo, di colori caldi e freddi(il blu ed il rosa dei vestiti di Scarlett Johannson non sono stati scelti casualmente dalla costumista).
E’ incredibile come la scelta di una sola inquadratura riassuma tutte le sensazioni di un intero film, che diventa uno sviluppo di tutto ciò che si prova nei primi secondi della pellicola, nella sua essenzialità e nella sua carica emotiva.
Il film si svolge in un unico quadro temporale, come il dipinto di John Kacere così come questa inquadratura.
Non c’è un prima e un dopo. Tutto viene solo accennato, il resto è affidato alla mente dello spettatore, nel dipinto così come nel film.
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