Eccoci con un nuovo capitolo di “Tra Cinema e Pittura Scultura“, la rubrica nella quale metteremo a paragone ed analizzeremo scene, frames, sequenze di film con opere pittoriche scultoree alle quali i registi si sono ispirati per le loro pellicole.
Nota: questo capitolo rientra nella categoria “Tra Cinema e Pittura” in quanto le corrispondenze col cinema in ambito scultoreo sono più rare(o comunque non ne sono ancora a conoscenza), pertanto questo sarà uno “strappo alla regola”, che potrà rientrare eventualmente in una futura categoria a se stante qualora riuscissi a raccogliere abbastanza materiale a riguardo.
Il film che prenderemo in esame è Sussurri e Grida(Viskningar och rop), del 1972, scritto e diretto da Ingmar Bergman.
L’artista che prenderemo in esame è Michelangelo Buonarroti.

Con “Sussurri e Grida” Bergman traccia una storia sul dolore, sulla sua accettazione e sul rapporto con la libertà, attraverso addirittura la morte.
Un film durissimo e molto forte, la cui espressività viene accentuata dalla messa in scena peculiare e permeata da tutte le sfumature del rosso, da banchi candidi e neri particolarmente intensi, tutti legati alle varie sensazioni che i personaggi provano nell’arco della storia.
L’interesse del regista nella messa in scena quindi è molto legato ad un concetto prettamente pittorico di uso dei colori come veicoli di emozioni, dimostrando particolare attenzione alla scelta delle inquadrature, alla luce, nonché alla composizione dell’immagine, sempre perfetta e senza sbavature.
Bergman non manca di deliziare lo spettatore con una riproposizione, più concettuale che compositiva, della Pietà Vaticana di Michelangelo Buonarroti, mettendo un perno al film attorno al quale tessere le fila delle interpretazioni che ad esso si possono dare, legate principalmente all’aspetto religioso.
Autore: Michelangelo Buonarroti
Titolo: Pietà Vaticana
Data: 1498-1499
Ubicazione: Basilica di San Pietro in Vaticano, Roma
Materiale: Marmo
Dimensioni: 174 x 195 x 69 cm
Michelangelo ha poco più di 20 anni quando scolpisce questa incredibile opera, commissionatagli dal cardinale di S. Dionigi, il francese Villiers de la Graslaye, ambasciatore di Carlo VIII presso Leone X, che lo incaricò di “scolpire una Pietà che superasse in bellezza tutte le opere fin oggi realizzate”, da collocare nella rotonda di Santa Petronilla accanto alla Basilica di S. Pietro. Buonarroti dunque va a Carrara, dove passa del tempo con minatori, scalpellini ed operai, vivendo con loro durante il suo breve soggiorno alla ricerca del blocco di marmo che sarebbe poi diventata una delle sculture più famose della storia.
L’eternità e la morte; l’amore divino e l’amore terreno, tutti i pensieri che mi angosciano sin dall’infanzia, urgevano adesso per trovare un’espressione sublime.
L’artista cerca una nuova composizione per la Pietà, diversa da quelli che erano i canoni del tempo, con il Cristo rigido sulle ginocchia della Vergine, il tutto in una rigida struttura che era solita contrapporre il verticale all’orizzontale.
Questa Pietà è scolpita con estrema naturalezza: il corpo di Gesù è cadente sulle ginocchia di Maria, la gravità è presente, la fisica dei corpi rispettata, l’anatomia sviluppata in ogni singolo dettaglio(si noti la mano destra di Maria che sorregge il Cristo, per esempio). Si ha quindi una sensazione di reale dramma, di effettivo dolore. Dolore che è misto a liberazione, in una dolcissima rappresentazione di volti sì sofferenti, ma allo stesso tempo molto rilassati.
La composizione ha come vertice la testa di Maria che crea una forma triangolare grazie al panneggio – incredibilmente perfetto e molto accentuato per creare dei forti chiaroscuri – che si allarga sempre di più verso la base, ingrandendo la reale dimensione del corpo della Vergine, dolce e delicata.
Soffermarsi sulla descrizione tecnica di quest’opera sarebbe del tempo sprecato, perché la Pietà è un pezzo che non ha bisogno di parole. Bisogna guardarlo e ammirarlo. Lascio la parola a Giorgio Vasari, che scrisse di essa:
[…]alla quale opera(la Pietà) non pensi mai scultore, nè artefice raro, potere aggiugnere di disegno nè di grazia, nè con fatica poter mai di finezza, pulitezza, e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore ed il potere dell’arte.[…] Quivi è dolcissima aria di testa, ed una concordanza nelle appiccicature e congiunture delle braccia, e in quelle del corpo e delle gambe, i polsi e le vene lavorate, che in vero si maraviglia lo stupore, che mano d’artefice abbia potuto sì divinamente e propriamente fare in pochissimo tempo cosa sì mirabile; che certo è un miracolo che un sasso, da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione, che la natura a fatica suol formar nella carne.
L’articolo pertanto trascenderà il lato tecnico di una scultura che non necessità analisi di questo tipo per spostarsi sul piano concettuale.
Michelangelo ci propone il corpo di Cristo abbandonato dalla vita e straziato dalle sofferenze che ha dovuto sostenere, e d’altra parte il corpo di Maria limpido e delicato, non intaccato dal dolore, che viene espresso solo attraverso la gestualità, quale quella della sua mano sinistra, quasi ammonitrice dell’operato degli uomini. Critica mossa all’artista subito dopo la realizzazione della scultura, è stata quella verso l’età della Vergine, rappresentata molto giovane dall’artista. Critica alla quale Vasari risponderà dicendo:
Se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s’accorgono e non sanno eglino, che le persone vergini, senza essere contaminate, si mantengano e conservano l’aria del viso loro gran tempo senza alcuna macchia.
La rappresentazione della Vergine in tal modo enfatizza la sua purezza d’animo, la sua accettazione del piano Divino dopo la morte del figlio suo, che lascia la carne per diventare puro Spirito. E’ in quest’ottica che l’interpretazione dell’opera risulta fruttuosa. Il corpo di lui, pesante e “umano” si contrappone al corpo di lei, maestoso, morbido e “divino”.
La morte viene espressa da Michelangelo in tutta la sua drammaticità, che fa spazio però, subito dopo, all’eternità dell’anima e dello spirito, alla leggerezza dopo l’abbandono di tutte le sofferenze materiali e terrene, che elevano l’essere e lo fanno diventare pura sostanza. Proprio come succede ad Agnese.
Bergman, nella sua grande parabola sul dolore, tocca aspetti della religiosità molto chiari, in modo esplicito quanto implicito. Dedicherà infatti un’intera scena all’estrema unzione di Agnese, malata di cancro al basso ventre. La sua morte, assistita dalle 3 donne protagoniste del film(non a caso furono 3 Marie a seguire Gesù negli ultimi momenti della sua vita), viene messa in scena dal regista come una liberazione piuttosto che un dolore. La situazione che il film ci propone infatti è pregna di dolore sin dall’inizio, e con la morte di lei non fa altro che aprire più strade alla vita dei protagonisti, liberandoli dai vincoli che la presenza di Agnese aveva creato su di loro, nel bene e nel male.
La Pietà messa in scena da Bergman non ricalca quindi fedelmente l’opera di Michelangelo, ma ne segue i tratti concettuali distintivi: Anna perde una figlia molto giovane e riversa su Agnese quello che non ha potuto dare alla piccola. Diventa quindi una seconda “mamma”(come dirà anche nel film) per lei, accudendola e instaurando un legame con lei, soprattutto negli ultimi momenti della sua vita. Il rapporto che si viene a creare dunque è quello di madre-figlia, esaltato nel momento della morte di Agnese che vede Anna come unica persona a rimanerle accanto.
La composizione è anche qua perfettamente triangolare, simmetrica, in un’inquadratura quasi priva di elementi che possano in qualche modo interferire con la scena. Lo sfondo è totalmente nero, mentre il piano superiore quasi interamente bianco, in un quadro completamente statico, che esalta e rafforza con decisione l’atmosfera estremamente drammatica della scena.
Il cineasta Svedese saggiamente fa assumere alla badante un’espressione rilassata seppur sofferente, scoprendole inoltre il seno. Il messaggio che ne viene fuori è quello di una madre che ha perso una figlia, conscia del fatto che la morte di lei ha tolto dal suo corpo e dalla sua anima tutti i mali che per lungo tempo l’hanno straziata.
A questo si contrappone il corpo di lei rannicchiato – come una bimba farebbe riposando sulle gambe di sua madre – e lo sguardo finalmente rilassato, sebbene presenti un viso pallido e chiaramente privo di vita.
Il regista inoltre, coerentemente con l’uso dei colori che ha fatto durante tutta la pellicola, ricopre l’ambiente di bianco, dalle lenzuola ai vestiti delle due donne, ponendo dietro di esso uno sfondo totalmente nero.
Durante il film infatti vedremo i tre colori dominanti – nero, rosso e bianco, – rappresentare le varie emozioni dei personaggi: il nero indica lutto, il rosso indica la passione ed il dolore, il bianco l’innocenza e la purezza.
Alla luce di ciò l’utilizzo dei colori in questa scena risultano chiari, esaltando la psicologia degli unici personaggi “puri” di questo racconto, uniti in un unico grande velo bianco, sovrastato dal nero del lutto per la morte di Agnese.
La morte non viene vista espressa attraverso la sua potenza drammatica, bensì liberatoria. Il finale del film infatti, non è pregno di dramma, al contrario: un estratto del diario di Agnese viene letto allo spettatore, nel quale la felicità di stare insieme alle sorelle è potente tanto quanto la fotografia di Sven Nykvist che cambia repentinamente tono e diventa candida e chiara. La scena descritta è ovviamente precedente alla storia raccontata, diventando un flashback sul piano pratico, ma un evento radioso e ultraterreno su quello concettuale.
In conclusione Bergman, ricalcando il concetto alla base della Pietà di Michelangelo, crea una sua propria Pietà, contestualizzandola perfettamente nella sua storia, nel suo ambiente, con i suoi toni e le sue impostazioni. L’icona di un intero film.
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