L’artista che prendiamo in esame è René Magritte.
Parto col dire che The Handmaiden è un grande film. Bellissimo, e che gode di una messa in scena che rasenta la perfezione e di una storia incredibilmente ben articolata, intrecciata, complessa, solida.
Park Chan-wook gira questo film con una perizia tecnica e una qualità visiva che da sole basterebbero ad elevarlo un gradino sopra la stragrande maggioranza delle pellicole uscite negli ultimi anni.
Una regia vorticosa, piena di movimenti orizzontali, verticali, rotatori, camera a mano, primissimi piani alternati a piani lunghi: insomma, un mix perfetto tra estro artistico e sfoggio di abilità. Il tutto a servizio di una storia molto complessa nella sua costruzione, che viene accompagnata dalla saggia scelta delle tecniche di ripresa da utilizzare, del montaggio, del sonoro, che fanno di questo prodotto un’opera perfettamente impostata. Non un banale film atto a dare sfoggio di se stesso dunque, ma un film nel quale l’esercizio di stile è funzionale per dirigere il ritmo molto vario di una storia particolarmente intricata nei tempi e nella narrazione.
Una storia ricca di colpi di scena, nella quale i ruoli dei 3 personaggi principali si sostituiscono tra loro, si intrecciano, si confondono, in un gioco retto splendidamente da Park Chan-wook che gestisce molto abilmente la psicologia delle protagoniste, tracciando in modo volutamente ambiguo e contraddittorio le molte sfaccettature delle due.
Autore: René Magritte
Titolo: La riproduzione vietata(La reproduction interdite)
Data: 1937
Ubicazione: Museo Boijmans van Beuningen, Rotterdam
Tecnica: Olio su tela
Dimensioni: 65 x 81.3 cm
Questo dipinto, come tutti quelli di Magritte del resto, necessita di una lettura introdotta dal titolo dato dall’autore stesso, che, come una sorta di “indizio”, ci fornisce una chiave per aprire la porta dietro alla quale il fruitore può trovare i più svariati significati all’opera.
La lettura pre-iconografica del dipinto sarà breve, d’altronde la stragrande maggioranza delle opere del pittore belga sono spoglie e chiare nella loro composizione: un uomo davanti ad uno specchio che non riflette ma ripropone lo stesso di spalle, a differenza di come accade con il libro su una mensola sulla destra, correttamente specchiato.
L’opera dunque contrappone a primo impatto la specularità del libro e la non-specularità dell’uomo, indice della sostanziale differenza tra i due elementi, nonché della loro differente “essenza”.
Magritte sottolinea la non riproducibilità dell’essere umano, l’impossibilità nel racchiudere le pressoché infinite maschere che indossiamo nella nostra vita, le illimitate sfaccettature del nostro essere. A differenza di un libro, il cui corpo e contenuto è oggettivo e statico, completo nella sua essenza.
Il pittore sfrutta alcune “strategie” per sottolineare che quello che vediamo è un paradosso visivo, ma non concettuale. Ciò che vediamo infatti è un uomo, un libro, uno specchio. La riflessione che viene fuori da ciò è che il tema trattato è strettamente legato al concetto di rappresentazione, all’interpretazione che diventa il tassello mancante di un dipinto che afferma i suoi stessi limiti: l’uomo, in quanto essenza non-compiuta, non-statica, non può essere rappresentato. Lo specchio, oggetto considerato comunemente come portatore di verità, come espressione di oggettività, diventa strumento – per l’artista come per lo spettatore – per esaltare la sua condizione di oggetto che non rappresenta, ma ricalca. Ciò che vediamo dentro di lui è ciò che di fatto vogliamo vedere, e ciò che gli altri vedono dentro di lui non è il nostro riflesso, ma la loro percezione del nostro riflesso.
L’artista belga non manca di dire allo spettatore che quell’uomo ha un’anima, che non è un manichino. La perizia tecnica con cui lo rappresenta conferisce sostanza ad un corpo del quale di fatto non ci viene detto nulla. L’uomo in quello specchio siamo noi, e René Magritte ne è consapevole. Si tira indietro dinanzi allo spettatore nel momento in cui il pennello incontra il suo più grande limite: l’uomo.
La riproduzione vietata dunque deve far riflettere sull’impossibilità della circoscrizione dell’uomo – nella sua totalità – in limiti dati dalla matita, dal pennello, dall’inquadratura cinematografica.
Park Chan-wook gioca, per tutta la durata del film, con la psicologia dei due personaggi principali, sfaccettandoli in maniera ambigua, altalenante, contraddittoria, portandoli ad avere degli atteggiamenti difficilmente comprensibili e prevedibili. Merito di un’ottima sceneggiatura nonché di una prova attoriale delle due sentita e perfetta.
Il regista delizia con una breve inquadratura nella quale le due protagoniste assumono una posa che ricalca “La riproduzione vietata“, inscritta in una scena in cui vediamo entrambe togliersi i vestiti a vicenda, in una situazione che mescola la servitù con la signoria, la malizia con la purezza, l’inganno dell’una con l’ingenuità dell’altra.
A livello compositivo, ovviamente, vengono sfruttati i mezzi propri del cinema, riproponendo dunque le due figure del quadro grazie alla presenza di due attrici fisicamente molto simili tra loro e acconciate in maniera praticamente identica. Senza mancare di contestualizzare il tutto, Park Chan-wook cala la situazione in un momento del film molto particolare, nel quale vari dubbi e problemi iniziano a nascere nella mente delle due, che si realizzano in un botta e risposta nel quale vediamo l’alternarsi della posizione dell’una e dell’altra. Lo spettatore quindi vede i volti di entrambe, ma loro non si guardano mai, di fatto. Ciò che crea il regista quindi è una situazione emotivamente molto forte, in cui nessuna delle due sa ciò che prova l’altra, né la sua espressione in quel determinato momento. Come dirò più giù nell’articolo, allo spettatore vengono dati degli elementi precisi, binari nei quali muoversi per recepire a pieno la riflessione del regista sul mezzo cinematografico e sui suoi strumenti di rappresentazione.

L’alternarsi dei ruoli delle protagoniste – conclusione a cui si può arrivare a film terminato – fa capire come, fino ad un certo momento, il loro carattere fosse impossibile da codificare.
Park Chan-wook avvia una riflessione dunque, a partire da questo breve momento, sul concetto di rappresentazione narrativo-cinematografica, che attraverso dialoghi e messa in scena raffigura un contesto nel quale delineare chiari tratti della psicologia dell’uomo è sostanzialmente impossibile.
A differenza di Magritte, Park Chan-wook opera in relazione allo spettatore in senso opposto: mentre il pittore esprime chiaramente l’impossibilità della rappresentazione dell’uomo come identità, facendo nascere nello spettatore una riflessione che dovrà essere da lui sviluppata, il cineasta mette in chiaro il suo concetto di rappresentazione per poi portare lo spettatore ad una riflessione solo dopo la conclusione del film, conscio di alcuni fattori e avendo determinati elementi per poter sviluppare il suo pensiero.
Entrambi i prodotti dunque, seppur seguendo vie diverse, pongono vari quesiti sul concetto di rappresentabilità e sulle limitazioni imposte da ciò che è intrinseco al concetto stesso: l’uomo in quanto tale non può essere rappresentato. Che si tratti di un dipinto, materialmente più limitato nello spazio e immobile nel tempo, o di un film, più ampio nello spazio e nel tempo, l’uomo diventa l’oggetto non rappresentabile per eccellenza. Diventa quell’elemento che può essere abbozzato, introdotto, copiato, ma mai espresso.
Il grande merito del cineasta sudcoreano è stato dunque quello di mettere una scena una storia ricca di contraddizioni e ambiguità, nella quale tutto ciò che vediamo non è altro che la ricerca di una rappresentabilità che non può essere portata a termine dall’artista, che per quanto si sforzi di sfruttare quanto meglio può gli strumenti a sua disposizione, non può far altro che lasciare aperte le porte di un dialogo che non potranno mai essere chiuse del tutto: che cos’è l’uomo?
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