- TITOLO: Crimini e misfatti(Crimes and misdemeanors)
- DATA DI USCITA: 1989
- REGIA: Woody Allen
- SCENEGGIATURA: Woody Allen
- TRAMA:
Judah Rosenthal, un affermato oculista ebreo decide, con l’aiuto di un sicario, di uccidere la sua ossessiva amante divenuta oramai un peso. Cliff Stern, documentarista idealista, è costretto a filmare l’ipocrita e immorale vita di un miliardario che gli ruba anche la donna. Due storie parallele che, infine, si incroceranno.
Allen si avvale di un comparto tecnico e di un cast di prim’ordine, da Martin Landau a Sven Nykvist per dirigere questo film, che viene orchestrato magistralmente tra intrecci e legami di personaggi che, seppur con diversi “background” condividono un legame “fraterno”(il film sarebbe dovuto essere intitolato “Brothers“) in quanto esseri umani, aventi a che fare con crimini e misfatti(da notare che “misdemeanors” ha un significato leggermente diverso rispetto alla traduzione riportata nel titolo del film. Il termine si riferisce infatti ad un crimine “minore”, rispetto al “falony“, quel crimine di maggior gravità che prevede, a livello giuridico, pene più severe) più volte nella propria vita. Sven Nykvist gioca con i tagli di luce per illuminare fortemente le scene senza dare impressione di artificiosità, conferendo a tutta la pellicola un ambiente naturale e autunnale, seppur stranamente saturato.
La regia di Woody Allen non ha sbavature, è di altissimo livello, seppur non virtuosa(il suo stile non lo è) in quanto a movimenti. La qualità della tecnica registica – associata al montaggio di Susan E. Morse, fidata collaboratrice di Allen dal 1977 al 1998 – consente allo spettatore di analizzare chiaramente tutti i personaggi della storia, rappresentanti diversi tasselli di un puzzle molto più grande di loro. I passaggi da una storyline all’altra inoltre sono ben gestiti senza dare l’idea di un ritmo forsennato o eccessivamente lento. La lucidità di Allen non è dunque solo a livello di scrittura, ma anche a livello visivo: i tempi sono gestiti benissimo e ben distribuiti per tutta la durata della pellicola.
Sullo sfondo della sua New York vediamo svilupparsi la vita di diversi esseri umani che, esponendosi totalmente allo spettatore attraverso un processo di autocoscienza – elemento base della struttura narrativa dei film di Allen – si relazionano con la freddezza di un Universo indifferente e con la propria etica, elemento indispensabile che, in assenza di un dio, diventa unico e solo giudice della proprio esistenza.
Ci dobbiamo sempre ricordare che a noi, dopo la nostra nascita, è necessario tantissimo affetto al fine di persuaderci a rimanere in vita. Una volta ricevuto quell’affetto generalmente permane, ma l’universo è un luogo assolutamente freddo. Noi investiamo in esso i nostri sentimenti e in determinate condizioni sentiamo che il gioco non vale proprio la candela.
Il film propone una drammatica riflessione sul libero arbitrio, contrapponendo la realtà religiosa ebraica(e non) di un rapporto con delle “leggi” etico-morali dettate dai dogmi del proprio credo e la realtà pragmatica e laica di un rapporto personale con la propria morale, fondata sulle necessità terrene. Su questi due binari l’intero film traccia i contorni dei suoi personaggi, che in misura diversa si troveranno a rapportarsi con questa tematica, in una ricerca ossessiva del concetto di morale e del significato della vita.
La freddezza dell’Universo è tragicamente disegnata da Allen, che, amalgamando sapientemente aspetti contrapposti eppure complementari come la commedia e la tragedia(la commedia non è altro che la tragedia filtrata attraverso il passare del tempo) mette in luce un’amaro racconto nel quale il buono(il professor Levy, inneggiante all’amore e alla bontà) e il cattivo(Judah, macchiatosi di omicidio) non sono per niente diversi dinnanzi al grande disegno della vita.
Gli avvenimenti si snodano così imprevedibilmente, così ingiustamente… La felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione. Siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all’universo indifferente. Eppure la maggior parte degli esseri umani sembrano avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici: nel loro lavoro, nella loro famiglia, e nella speranza che le generazioni future possano capire di più.
Woody Allen non ha mai nascosto il suo nichilismo, ma qui lo rende addirittura nucleo della sua opera. Il documentarista Cliff porta avanti la sua vita grazie anche agli insegnamenti di Levy, professore sopravvissuto ai campi di concentramento, che trova nell’assoluta insensatezza della vita qualcosa per cui alzarsi la mattina. Insegnamenti che crollano totalmente quando nella sua “lettera d’addio”, il professore dirà di essere “uscito dalla finestra”. Il suicidio di Levy distrugge dunque qualsiasi convinzione e possibilità di una vita quanto più possibile serena e felice.
D’altra parte abbiamo Judah, che, al contrario di Levy, si rende amaramente conto di come sia possibile continuare a vivere una volta che il proprio delitto sia stato metabolizzato e accettato. Durante la scena finale, nella quale Cliff e Judah per la prima volta si incontrano, viene riassunto tutto ciò sul quale il film e tutti i suoi personaggi hanno riflettuto, fornendo allo spettatore una summa del rapporto degli uomini con i loro crimini e i loro misfatti.
Il regista cerca disperatamente di arrivare ad una conclusione, sebbene paradossalmente sappia che è impossibile da trovare. Tocca al fruitore trarre le proprie conclusioni, in relazione al suo vissuto, al suo concetto di etica e morale, al suo rapporto con un essere superiore.
Ognuno vive in un mondo che senza Dio è tragico e senza senso. La sua assenza dunque lascia cadere l’intero peso dei propri fardelli solo ed esclusivamente su di noi, lasciandoci di conseguenza il compito di operare in relazione ai nostri peccati a seconda della nostra volontà di sopprimere o meno le colpe di cui siamo portatori. Che sia un crimine o un misfatto, ogni colpa della nostra esistenza ricade sul prosieguo della vita, che subirà un drastico crollo o un’impennata a seconda della capacità della nostra coscienza di gestire e sostenere ciò di cui siamo colpevoli.
Beninteso, Woody Allen non asseconda la totale anarchia(nel senso dispregiativo del termine) che da il diritto ad ogni essere umano di agire solo ed esclusivamente in base alla sua morale, espressamente affermando che le leggi sono l’unica cosa che, in assenza di un dio, si sostituiscono a dei criteri sulla base dei quali costruire la propria etica, e senza le quali il mondo sarebbe un posto caotico all’interno del quale la ricerca del senso della vita non potrebbe neanche avere inizio.
In conclusione, “Crimini e misfatti” è un film complesso, ricco di riflessioni proprie del Woody Allen più pessimista e nichilista, racchiuse in modo chiaro e strutturato in una storia che riesce a condensare, senza essere superficiale, tutti i temi che si propone di trattare.
Una scrittura perfetta dei personaggi insieme a delle ottime interpretazioni(Martin Landau su tutti) conferisce al film un’espressività piena zeppa di sfaccettature, che vengono messe in scena attraverso anime alla continua ricerca di un senso da dare alla propria vita in qualunque contesto siano loro calate.
E’ possibile dunque vivere senza Dio, con la consapevolezza che tutto, prima o poi, finirà nell’oblio più assoluto? Il film/Woody Allen non vuole(e non può) dare una risposta, ma cerca, attraverso l’auto-analisi, di raccogliere quanti più elementi possibili da fornire allo spettatore per poter dare lui a possibilità di arrivare, attraverso un proprio processo di autocoscienza, alla SUA risposta, solo dopo aver assimilato il concetto che ogni essere umano, colpevole di crimini o misfatti, dovrà imparare a vivere con se stesso.
Dovrà chiedersi: “il gioco vale la candela?“.
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