Lars Von Trier, Melancholia, 2011, 135′.
Melancholia è un film mastodontico, ricco di suggestioni, immagini e suoni che creano infiniti rimandi e sottolineano altrettanti concetti cari a Lars Von Trier e soprattutto essenziali per una completa analisi del film, la quale avrà spazio in una recensione a sé stante (non mi permetterei mai di scomodare la pellicola per qualche riga introduttiva).
Come accadeva per Andrej Tarkovskij (ne ho parlato in due precedenti capitoli di Tra Cinema e Pittura: Solaris e Lo specchio), la pittura nei film del regista danese opera un ruolo essenziale, attraverso la quale egli fortifica aspetti importantissimi della sua narrazione e – come in questo caso – dei suoi personaggi.

C’è un salice che cresce di traverso
ad un ruscello e specchia le sue foglie
nella vitrea corrente; qui ella venne,
il capo adorno di strane ghirlande
di ranuncoli, ortiche, margherite
e di quei lunghi fiori color porpora
che i licenziosi poeti bucolici
designano con più corrivo nome
ma che le nostre ritrose fanciulle
chiaman “dita di morto”; ella lassù,
mentre si arrampicava per appendere
l’erboree sue ghirlande ai rami penduli,
un ramo, invidioso, s’è spezzato
e gli erbosi trofei ed ella stessa
sono caduti nel piangente fiume.
Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua,
l’han sostenuta per un poco a galla,
nel mentre ch’ella, come una sirena,
cantava spunti d’antiche canzoni,
come incosciente della sua sciagura
o come una creatura d’altro regno
e familiare con quell’elemento.
Ma non per molto, perché le sue vesti
appesantite dall’acqua assorbita,
trascinaron la misera dal letto
del suo canto ad una fangosa morte.
Millais dipinge la tela in due diverse fasi, delle quali solo la seconda sarà dedicata al personaggio.
La prima fase, dedicata quindi alla copiosa flora, fu il frutto di grandi sofferenze e sacrifici da parte del pittore, che lavorò in condizioni difficilissime, tra insetti portatori di malattie e condizioni meteorologiche particolarmente sfavorevoli:visse inoltre per un certo periodo in una capanna di fortuna vicino al luogo nel quale dipingeva.
La seconda fase, dedicata ad Ofelia, fu dipinta nel suo studio.
Il dipinto è tratto da una scena dell’Amleto di William Shakespeare, Atto IV, scena VII, il quale estratto fondamentale è qua sopra riportato: Ofelia sta annegando in un fiume con uno sguardo rivolto verso l’altro estremamente rilassato; potremmo dire noncurante addirittura. L’acqua impregna i suoi vestiti e lentamente la porta giù verso la sua morte. I fiori facenti parte delle sue ghirlande sono ormai gallegganti sul fiume le cui rive cariche di una flora fittissima e varia (nonché variopinta) sembrano accogliere il corpo di lei.
Il suo vestito è quasi trasparente, etereo, eppure è proprio questa zavorra a portare giù la donna, la quale tiene le mani aperte, rilassate, in segno di accettazione del suo destino. Nulla del suo corpo è contratto o sofferente: lo sguardo si sposta inevitabilmente sul volto, sui suoi occhi assenti, elemento espressivo più incidente di Ofelia, che non ha più forze (o meglio: “sceglie” di non avere più forze) e che si abbandona alla corrente, ad una tomba fatta di capelli rossi e gioielli di fiori.
I fiori hanno un ruolo fondamentale nel dipinto: Millais sceglie con cura ogni singola varietà, partendo da quelli descritti da Shakespeare stesso per poi aggiungerne altri che si caricano di un significato ben preciso in relazione alla florigrafia (il linguaggio dei fiori):
Ramo di salice piangente: amore non ricambiato. Ortica: dolore. Ranuncolo: ingratitudine e infantilismo. Margherita: innocenza. Rosa: giovinezza, amore, bellezza. Nontiscordardimé: il nome stesso del fiore equivale al suo simbolismo. Violette: si rifanno innanzitutto al passo che recita: «Ecco una margherita… E le violette ti vorrei dare, ma appassiron tutte quando morì mio padre. M’hanno detto che ha fatto buona fine…». Simboleggiano poi castità, fedeltà e soprattutto la morte prematura di lei. Viola del pensiero: Riflessione. Ophelia raccoglie questi fiori “per i pensieri”(«Ecco del rosmarino; è per memoria. Non ti scordare, amore; e qui le viole, per i tuoi pensieri»). Fritillaria: dolore. Papavero: sonno e morte. Adonide: pena, dolore. Giunchiglia o Primula: molto probabilmente la seconda, essendo citata nel testo.
Sono inoltre presenti nel dipinto:
Pettirosso: «Perché il mio dolce Robin è tutta la mia gioia…». Diverse sono le interpretazioni riguardanti questo uccello: dal suo significato come “spirito” che “vola” al momento della morte di Ophelia al colore rosso che viene attribuito al martirio, nonché al sangue, alla morte ecc. Teschio: non è chiaro se fosse voluto, sta di fatto che questo curioso gioco di luci e colori richiama chiaramente un teschio. Potrebbe simboleggiare ovviamente l’imminente morte di Ophelia.
Riconoscere questi fiori è particolarmente facile in quanto essi sono dipinti da Millais con estremo realismo e precisione: suo figlio scrisse addirittura che un professore di botanica prese come esempio questo dipinto per dare lezioni ai suoi studenti. Realismo estremo che è riscontrabile anche nella donna: Ofelia ha le sembianze di Elizabeth Siddal, musa e modella di diversi artisti del periodo. Il pittore la dipinse facendola posare in una vasca piena d’acqua nel suo studio(questo le causerà inoltre gravi problemi di salute). L’indiscutibile qualità tecnica del pittore inglese è tale da oscurare completamente la pratica fotografica che, seppur utilizzata da circa 12 anni prima del dipinto, non riusciva comunque a restituire una così grande quantità di dettagli e soprattutto tale qualità visiva. Tutto ciò che si vede nell’opera è frutto di un’osservazione diretta da parte dell’artista, e soprattutto di un’attenzione maniacale per la composizione nel suo complesso, impostata perfettamente, bilanciata e soprattutto ricca.
Ofelia in conclusione è un dipinto tecnicamente ineccepibile e concettualmente carico di innumerevoli significati, che si presta ad altrettante interpretazioni data la sua ambiguità e voluta oscurità sotto certi aspetti. Proprio come Melancholia e, in particolare, Justine.

Justine è malata, proprio come Ofelia. Una malattia che la rende una vera e propria “vittima” del suo stesso male: non è un personaggio cattivo, che muore per aver commesso atti disdicevoli, è semplicemente malata. Lars Von Trier sottolinea con insistenza questo contrasto tra il male e la malattia, mettendo in luce più volte come le reazioni della protagonista siano da attribuire esclusivamente alla sua instabilità e non ad una condizione inconscia o “genetica” (il fatto stesso che la minaccia nel film sia il pianeta Melancholia e non la protagonista, la quale – al contrario – è l’unico personaggio in grado di mantenere la calma, serve a comprendere che non c’è nulla di veramente negativo nel personaggio di Justine). Quell’isteria di Ofelia diventa in Melancholia depressione, con tutti i problemi ad essa legati, in special modo in relazione ai rapporti con gli altri e soprattutto con chi si prende cura di lei.
Il rapporto tra le due figure femminili è inoltre ribadito a più riprese durante il film, in particolar modo nel momento in cui Justine, chiusasi in una camera, nella quale libreria sono aperti diversi libri d’arte contemporanea, inizia a sostituirli con opere di Pieter Bruegel il Vecchio, Caravaggio e, appunto, Millais. Lars Von Trier ripropone il dipinto preraffaellita contestualizzandolo alle circostanze del suo film: la protagonista è vestita da sposa e in mano tiene un bouquet: la sua “fuga” è proprio dal matrimonio e da quel percorso che non può intraprendere; da sua madre, da sua sorella, dal suo capo, da suo marito.
Ciò che più accomuna però il regista e il pittore è la loro innovazione nel trattare la malattia mentale. Se al tempo di Millais fece scalpore una rappresentazione così estremamente anticonvenzionale della donna, allo stesso modo Melancholia tratta il tema della depressione sotto un punto di vista sincero, crudelmente onesto, senza ricorre a quegli sciocchi e deleteri luoghi comuni i quali altro non fanno che svilire una condizione da prendere sul serio e da non confondere con la semplice “tristezza”.
Ciò che Von Trier vuole “dipingere” con il suo film(lo sa bene lui: scrisse il film durante un periodo di depressione. I tratti di Justine sono i suoi, di fatto) è una condizione mentale nella sua reale essenza, che viene fuori nelle piccole – e grandi – cose della vita di tutti i giorni(il momento del bagno, della cena, di una semplice cavalcata anche).
Una condizione che purtroppo spesso e volentieri viene sottovalutata.
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