Hard to Be a God: è difficile essere un dio.

SCHEDA FILM

  • TITOLO: Hard to be a God (Trudno byt’ bogom)
  • DATA DI USCITA: 2013
  • REGIA: Aleksei German
  • SCENEGGIATURA: Aleksei German, Svetlana Karmalita
  • DURATA: 177′
  • TRAMA: 
Un gruppo di scienziati terrestri viene mandato su un pianeta vicino per aiutare le civiltà locali – ancora in una fase medievale della loro evoluzione – a progredire; non possono però intervenire attivamente sullo sviluppo di queste società. Rumata, uno degli scienziati, tenta di salvaguardare gli intellettuali finendo per prendere posizione nelle continue lotte del regno di Arkanar.

«È difficile essere un dio scrivere la recensione di questo film» dice Rumata al suo collega. Non potrei essere più d’accordo con lui.
Cercare di raccogliere tutti i piccoli frammenti che si sono venuti a creare durante e dopo la visione del film nella mia testa è un lavoro estremamente difficile: la riflessione sull’analisi di Hard to Be a God (non essendo mai stato doppiato/tradotto in italiano utilizzerò il titolo inglese) mi ha portato a “disegnare” due strade opposte: una più rapida, dritta, precisa; l’altra tortuosa, piena di curve, ostacoli, piccole ma innumerevoli diramazioni e pochissima visibilità a causa delle condizioni atmosferiche.
Optare per la prima strada mi porterebbe ad analizzare a grandi linee il film in modo tale da tracciare un grande abbozzo di un’opera la quale – data la sua immensità – rischierebbe di risultare tragicamente mutilata dalle considerazioni di un ragazzo che scrive per passione e non ha basi accademiche e soprattutto abbastanza esperienza per poter gestire una simile “impresa”, qualora volesse avventurarsi in un dettagliato resoconto di tutto ciò che è presente nell’ultimo lavoro di Aleksei German.
Ritengo quindi che la scelta della prima strada sia quella più adatta e soprattutto quella che potrebbe invogliare maggiormente eventuali lettori ad approcciarsi ad Hard to Be a God con una consapevolezza non troppo ampia e che stimoli la loro curiosità: questo è ciò che spero, almeno.
Concludo questa – non troppo – breve introduzione dicendo che nell’articolo saranno presenti più immagini del solito, le quali – sono certo – mi daranno man forte nell’arricchire quanto più chiaramente (parola che probabilmente non comparirà più nel corso della recensione) ciò che andrò a scrivere.
Hard to Be a God è una visione molto difficile da portare a termine: lungo quasi tre ore, fatto esclusivamente di piani sequenza molto lunghi e di dialoghi spezzati, mai di facile comprensione e soprattutto non coesi; molta attenzione è quindi richiesta allo spettatore.
German gira il film con una consapevolezza e una gestione degli attori, movimenti di macchina, scenografie e oggetti in scena che lascia veramente di stucco: sebbene il montaggio non abbia un ruolo espressivo di carattere enfatico e si limiti a “dividere” le sezioni del film, la velocità con la quale gli occhi del fruitore si troveranno ad essere bombardati da decine di elementi al secondo è sbalorditiva: infiniti personaggi (vivi e non) passano davanti alla macchina da presa, animali (vivi e non), oggetti (penzolanti e non), acqua (corrente e non), feci (liquide e non), fumi (densi e non), suoni (stridenti e non), in un continuo ballo macabro e stridente che non lascia tempo di respirare.
Il regista coreografa questa moltitudine di soggetti e oggetti in lunghissime sequenze che fanno facilmente intuire quale mastodontico lavoro sia stato necessario per la gestione di così tanti movimenti e intersezioni.

La camera a mano è sempre posizionata ad altezza d’uomo e si muove come se il regista non fosse altro che parte di quella miriade di personaggi presenti sulla scena: spesso infatti diversi individui si fermeranno a guardare direttamente nella cinepresa, rompendo la quarta parete e ricordando costantemente che il regista e lo spettatore sono un’unica entità, nella grandissima accozzaglia di sudiciume che è Hard to Be a God. Una sensazione di oppressione sarà continua durante la visione in quanto il regista/protagonista/spettatore si muove in spazi strettissimi, tra molte persone che lo spingono, lo spostano, lo tirano e, d’altra parte, si comportano come se non ci fosse: non è raro infatti vedere una mano spuntare vicinissima alla macchina da presa nell’atto di afferrare un oggetto o di lanciarlo.

Il bianco e nero è splendido e confonde la grossa quantità di oggetti in scena che diventano delle sagome piuttosto che dei veri e propri corpi riconoscibili. I liquidi gocciolanti e il cibo stantio si confondono con l’urina e le feci, con la pioggia e la carne morta, presente ovunque in un luogo che, paradossalmente, potrei definire “abbandonato da Dio”. Di chiaroscuri così belli se ne vedono davvero pochi.

German vuole che lo spettatore entri come non mai nella scena, in questo medioevo estremamente lurido, viscido e fetido, tra questi personaggi bizzarri, grotteschi e sporchi, e nella vita di Rumata il quale si trova ad avere a che fare con una società e un mondo dove il forte sopprime il debole (non a caso sono i bibliotecari e gli intellettuali ad essere decimati sotto le armi di signori che fondano il loro potere sulla forza bruta) in un progressivo decadimento che non permettere agli uomini di progredire.

Un dio quindi, Rumata, che non può far altro che guardare e tentare velatamente di tenere a freno la furia di una popolazione barbara e incivile, di mettere al suo servizio un bibliotecario, di dare un ordine al caos. Tentativi che ovviamente non portano a nulla e spingono lo scienziato ad agire (incredibile la scena nella quale il bibliotecario da lui salvato si rivela essere nient’altro che un uomo allo stato brado, incapace addirittura di urinare autonomamente).

Ti faccio domande, tu non rispondi. Ti ho chiesto: “Cosa faresti se fossi Dio?”
Direi… Creatore! Dai alle persone ogni cosa che li separa.
Direi, punisci il crudele così che il forte saprà non essere crudele.
Se esisti, spazzaci via come polvere!
Distruggici tutti! Tutti.
È facile distruggere tutto.

Hard to Be a God vuole quindi riflettere sul ruolo di Dio verso un’umanità la quale altro non fa se non autodistruggersi senza farlo mai completamente. L’uomo non si annienta del tutto, continua semplicemente a mutilarsi, ancora e ancora. Rumata, “dall’alto” del suo ruolo su Arkanar, si rende conto che non c’è nulla da fare per un dio – se non la totale distruzione – in un luogo nel quale la lotta tra debole e forte non cessa di rinnovarsi. Distruggere i forti porta ad una nuova selezione di forti tra le fila dei deboli, con conseguente inizio di una nuova, sanguinosa guerra.


Nota: apprezzo tantissimo il fatto che Hard to Be a God sia un racconto che parla della società odierna attraverso una popolazione futuristica che agisce in un ambientazione del passato. Questa mescolanza di presente, passato e futuro è sostanzialmente un modo per elevare tutto ad una riflessione universale sul mondo.


C’è un’ultima cosa della quale voglio parlare (anche se “accennare” sarebbe il termine più adatto) per poi concludere questa recensione che ho cercato di rendere più fluida e lineare possibile, sebbene mi renda conto di non esserci riuscito granché: Rumata suona più di una volta un clarinetto (o quello che sembrerebbe essere un clarinetto), in due “sezioni” particolari del film: oggetto che non ho assolutamente sottovalutato ma la quale interpretazione non ritengo debba essere presente in questo articolo; l’ho formulata sulla base di pensieri molto personali e per non condizionare in alcun modo gli eventuali lettori a riguardo preferisco semplicemente sottolineare che a mio avviso è un elemento fondamentale del film, sul quale riflettere. Magari non sono il solo a pensarlo.

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  1. Escher e Magritte nel film-labirinto di Bernard Queysanne. – Il tempo impresso

    […] Stalker (1979, 162′) – Andrej Tarkovskij, Sátántangó (1994, 450′) – Béla Tarr o Hard to be a God (Trudno byt bogom, 177′) – Aleksej German nulla hanno in comune con i rispettivi romanzi nelle loro modalità di espressione. Le opere di […]

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