L’avventura (1960) – Michelangelo Antonioni.
Non c’è il sole ne L’avventura. Per un terzo della sua durata ci si trova su un’isola, di giorno. Eppure il mare, il cielo e la terra hanno lo stesso colore, lo stesso grigio. Un grigio estremamente piano, che gioca su sfumature leggerissime.
Ci sono sempre le nuvole ne L’avventura, come se non fosse concesso alla luce di colpire intensamente le onde, le rocce, i capelli, i volti.
Non c’è il nero ne L’avventura. Non c’è il bianco.
Un limbo cromatico che si riversa su personaggi erranti, fisicamente e psicologicamente. Anime indecise, o convinte di non esserlo, prede di un malessere che non ha un’origine chiara e non cessa di gravare su di loro per tutti i 142′ di pellicola.
È rarissimo che Antonioni “spieghi” ad un suo attore perché deve fare un gesto, egli è quasi ostinato nel nascondere gelosamente il proprio mondo. Gli serve di cogliere l’attore in un momento in cui quasi non sia attore, gli occorre un elemento, uno dei tanti su cui operare un processo di sintesi.[1]
In un’assenza di un effettivo movimento – materiale e concettuale – la regia di Antonioni prende le redini della (non)narrazione, attraverso scorci inconsueti, campi e controcampi sbilanciati e inquadrature atte a sottolineare la piccolezza dei suoi personaggi rispetto al paesaggio, elemento fondamentale in ogni momento del film. Un luogo arido, una contrapposizione tra ruderi e chiese barocche, una tromba d’aria, un bianco e nudo palazzo: ogni componente scenografica del film ha una sua peculiare funzione che non è scindibile dalla circostanza entro la quale è presentata: attraverso questa unione il set dunque non è ridotto a mero campo estetico sul quale far agire gli attori, ma diventa esso stesso protagonista.
La macchina da presa inoltre si muove liberamente, spostandosi da un punto all’altro senza alcuna apparente motivazione e senza tornare (quasi mai) al punto di partenza: un regista/divinità che osserva senza sentire su di sé l’obbligo di seguire alcun meccanismo prestabilito; proprio in virtù di ciò ogni inquadratura de L’avventura diventa un microcosmo vivo e pulsante, forte della perfezione compositiva di Antonioni.
Pochi giorni fa all’idea che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango nemmeno. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore.
– Claudia (Monica Vitti)
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A sinistra: L’avventura (1960) – Michelangelo Antonioni; a destra: Phantom Love (2007) – Nina Menkes. |
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A sinistra: L’avventura (1960) – Michelangelo Antonioni; a destra: Alone together – Maria Kreyn. |
Riferimenti bibliografici
[1] MICHELANGELO ANTONIONI, L’avventura. Michelangelo Antonioni; introduzione di Tommaso Chiaretti, Cappelli editore, Bologna 1977, pp. 9-20.
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