Il tempo della vita.

Mouchette (1967, 81′) – Robert Bresson.


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I have always envied him because he doesn’t get agitated over the “client” […]. He uses very few means of expression, nobody has ever reached such a degree of asceticism. He looks for the possibility of talking about life, of showing its unique aspect, the non-repetition of every gesture on screen. But the contradiction is that each gesture is banal. He expresses that which is typical through that which is unique, and this ability to link the infinitely large to the infinitely small has always moved me. It seems to me that I have always understood what he was trying to say.


L’ho sempre invidiato perché non si agita davanti al “cliente” […]. Usa molti pochi mezzi d’espressione, nessuno ha mai raggiunto un tale grado di ascetismo. Cerca la possibilità di parlare della vita, di mostrare il suo aspetto unico, la non-ripetizione di ogni gesto sullo schermo. Ma la contraddizione è che ogni gesto è banale. Esprime ciò che è tipico attraverso ciò che è unico, e la sua abilità di collegare l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo mi ha sempre commosso. Mi sembra di aver sempre capito ciò che cercasse di dire. [1]

– Andrej Tarkovskij.

È ancora una volta Andrej Tarkovskij che mi ci viene in aiuto e che ci fornisce una solida base per lo sviluppo di un testo riguardante il film e il cinema di Bresson più in generale.
L’ascetismo di cui parla il cineasta russo trova perfettamente riscontro in una pellicola che nella sua estrema purezza sa d’infinito.

Il regista già dalle prime inquadrature dimostra di non avere interesse nel personaggio agente, ma nell’azione stessa: posta questa premessa (dallo stesso Bresson) l’intero film diventa una sequenza di movimenti che assurgono a concetti astratti ed universali, piuttosto che a veri e propri corpi agenti.
In altre parole, per l’autore non è importante – e non deve esserlo neanche per lo spettatore – che un certo personaggio stia preparando una trappola per catturare un piccolo animale nel bosco, ma è importante l’azione di preparare una trappola. Questa costruzione scenica (specchio di un’intera visione del mondo) porta a delle scelte compositive che raramente vanno al di sopra del livello del busto dell’attore; se Bergman indugia ossessivamente sui volti, quasi a voler tirar fuori l’anima dai suoi personaggi, Bresson ha un approccio così distaccato verso gli attori tanto da annullarli totalmente.

Dimenticati dell’intonazione e del significato. Non pensare a quello che stai dicendo: pronuncia soltanto le parole in modo automatico. […] Il compito dell’attore è quindi quello di limitarsi a pronunciare le battute. Non dovrebbe permettersi di mostrare che egli le ha già capite. Niente spiegazioni, niente interpretazioni. Un testo dovrebbe essere recitato nello stesso modo in cui Dinu Lipatti suona Bach: con la sua tecnica straordinaria semplicemente libera le note, la comprensione e I’emozione vengono dopo. [2]

– Robert Bresson.

L’occhio è quindi puntato sul concetto di azione, e non su chi la compie: entra in gioco quindi il rapporto tra infinitamente grande e infinitamente piccolo: l’atto diventa – nel cinema di Bresson – nient’altro che sé stesso; le mani, inquadrate quasi ossessivamente diventano portatrici di un concetto, e il fatto che non venga mostrato nient’altro dell’attore spersonalizza l’uomo e assolutizza il concetto. È proprio questo l’ascetismo di cui parla Tarkovskij.

A sinistra: Sussurri e grida (1972, 91′) – Ingmar Bergman; a destra: Mouchette (1967, 81′) – Robert Bresson.

Mouchette è una ragazzina qualunque, eppure ha qualcosa di diverso rispetto ai suoi coetanei; ella non ha avuto il tempo dalla vita.
Non ha avuto il tempo di crescere come una bambina avrebbe dovuto; la vita ha imposto lei un salto temporale che l’ha trasportata in un mondo adulto, all’interno del quale deve comportarsi e gestire un’esistenza da adulta.
Vittima di tale condizione, la costante crescita del male nei suoi occhi (come dice un’anziana signora che la vita l’ha già vissuta) è un processo irreversibile che ha irrimediabilmente corrotto il suo animo. Bresson mette in contrapposizione i due aspetti della vita di questa povera ragazza: da una parte il suo atteggiamento “adulto” (allatta suo fratello piccolo e si prende cura della madre in fin di vita), dall’altro il suo essere ancora immatura e, in fondo, infantile (cerca di guadagnare qualche soldo per andare a fare un giro sull’autoscontro).

Questa figura, costretta alla vita adulta eppur indissolubilmente legata alla sua infantilità, vive tutta la vita in una notte (sottotitolo aggiunto in Italia; utile, per certi versi, al fine di dare una sorta di chiave di lettura al film): l’autore e lo spettatore sanno che non è così che dovrebbe andare la vita di una giovane ragazza, e la totale assenza di contatto tra la macchina da presa e gli elementi protagonisti paradossalmente accentua questo contatto emotivo con il fruitore. Il regista non dice cosa si deve pensare, non sottolinea nessun aspetto in particolare della sua stessa opera: l’atto di eliminare ogni singolo elemento superfluo per la lettura delle forme (e quindi di rappresentare ogni cosa nella sua più totale purezza) porta ad una percezione di chi guarda totalmente svincolata da ogni influenza se non dalla propria.

Ciò che viene fuori dalla visione di Mouchette è che Bresson mette davanti allo spettatore un film estremamente laico ma allo stesso tempo fortemente spirituale. Allo stesso modo, nel tracciare i contorni di una protagonista “incattivita” non manca di mostrare che tale cattiveria non è attribuibile a niente se non alle avversità della vita (si possono veramente “incolpare” le avversità?). Ci si trova dunque davanti ad un’opera la cui complessità è – allo stesso modo di un haiku (forma poetica tipica della letteratura giapponese) – dissimulata da una estrema capacità di sintesi e astrazione raggiungibile solo attraverso una forte consapevolezza delle proprie idee.

Una posizione però viene presa: davanti a questo destino, alla fine di questo percorso all’interno del quale la povera ragazza è stata costretta a “crescere” (pur non potendo biologicamente e psicologicamente farlo) e durante il quale è stata respinta e maltrattata (avendo lei stessa respinto e maltrattato gli altri), ciò che resta da fare è sperare nel principio di una nuova vita: Mouchette si getta in acqua; risuonano le note del Magnificat di Monteverdi.



Riferimenti bibliografici
[1] JOHN GIANVITO, Andrej Tarkovskij: interviews, University press of Mississippi, 2006, p. 45.
[2] PAUL SCHRADER, Il trascendente nel cinema, Donzelli editore, Roma 2010, p. 57.



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