Genesis (1998, 30′) – Nacho Cerdà.
Una perdita non elaborata; un rifiuto della perdita, piuttosto. Sulle note della sonata di Beethoven si dipana un racconto struggente di un uomo il quale, in seguito alla perdita della sua amata, si oppone alla morte scolpendo la più bella delle sue statue, avente le fattezze di lei.
L’arte può riportare in vita gli esseri umani, dunque? Ovviamente no. Questo lo sa bene Nacho Cerdà, che non manca mai di sottolineare l’immenso dolore di un uomo che sa di star rendendo immortale la memoria della sua metà attraverso la sua opera pur ricordando costantemente che questo non la riporterà certo in vita. I volti (frammenti di altre sculture) nel suo atelier lo guardano modellare il corpo di lei, lo guardano accarezzarlo, quasi come se potesse percepire il calore della sua pelle.
Già dopo qualche minuto è facile capire la direzione che il regista intraprende con Genesis, eppure ciò che colpisce è la maniera in cui, attraverso il montaggio e una regia esaltante alcuni elementi (il viso di lui, i suoi occhi), Cerdà riesca a dare forte carica emotiva alle sue inquadrature. Indubbiamente l’attore protagonista (Pep Tosar) svolge un ruolo fondamentale e da man forte al lavoro dell’autore, riuscendo a restituire una sincera sensazione di dolore e di amore, in una mescolanza che rende l’opera dolce e allo stesso tempo straziante.
Genesis è un cortometraggio che pur partendo da presupposti non innovativi riesce ad essere incredibilmente poetico ed evocativo in ogni singola sequenza, merito di una regia consapevole (che sa muoversi egregiamente tra ralenti, camera a mano e momenti di maggiore fissità), di un comparto sonoro imponente e di un attore protagonista che non fa mai sentire la mancanza dei dialoghi: il suo è un dolore interiore, che non ha voce nemmeno in momenti di esplosione emotiva.
La sua vita dopo la perdita è stata dedicata alla creazione della sua ultima opera, che ammira nella sua completezza solo per un istante.
Tale completezza è raggiunta però ad un costo estremo: perché essa prenda vita è necessario che lo scultore sacrifichi la sua.
È questo, infine, il ruolo e la maledizione dell’artista. Innamorato della sua arte continua a produrre, a creare, dedicando ad essa un’intera esistenza per poi guardare, un istante prima della fine, la sua opera completa. In fondo, per un istante, egli ha visto qualcosa di immortale.
Perché non parli!?
– Michelangelo Buonarroti, rivolgendosi al suo “Mosè”
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