Le ombre delle urla si arrampicano al di là delle colline.

Sleep has her house (2017, 90′) – Scott Barley.


The shadows of screams climb beyond the hills.
It has happened before. But this will be the last time.
The last few sense it, withdrawing deep into the forest.
They cry out into the black, as the shadows pass away, into the ground.

Le ombre delle urla si arrampicano al di là delle colline.
È successo prima. Ma questa volta sarà l’ultima.
I pochi rimasti le sentono, si ritirano in profondità nella foresta.
Piangono nel buio, mentre le ombre si spengono, nel terreno.

Iniziare questo articolo proprio con l’incipit del film è probabilmente una giusta – quanto comoda e funzionale – scelta al fine di ricondurre ciò che segue alle poche righe di apertura. Sarebbe, invero, una giusta scelta approcciarsi all’opera stessa partendo da questo presupposto e tenendolo sempre ben in mente durante la visione.
Avere questa sorta di “appiglio” diventa quindi fondamentale per potersi confrontare con un film in un certo senso privo di dialoghi: se da una parte non è presente l’uomo né fuori (voce narrante) né dentro l’inquadratura, dall’altra sono chiaramente udibili delle voci. O meglio, delle urla.

Le urla di una natura che gradualmente sprofonda nell’oscurità; le urla di animali che scappano, prede dell’ombra; le urla di tuoni, dello scrosciare dell’acqua, del fragore degli alberi in fiamme. È questa la voce di Sleep has her house.


Nota: Sleep has her house (Il sonno ha la sua casa, in italiano): un titolo particolare, sul quale è opportuno soffermarsi. Esso allude ad un personaggio femminile (her): l’unico presente nel film è la Natura. La sua casa, di conseguenza, è la foresta, insieme a tutti i suoi “inquilini” (che non sono uomini – è bene ricordarlo). 
La parola sonno trova riscontro in una costante dell’opera: l’avanzare dell’ombra. Ogni inquadratura nel film è caratterizzata da un lento sprofondare nell’oscurità, in una condizione, appunto, di sonno/sogno. Questo implica una realtà effimera, che si scontra però con ciò che è espresso nell’incipit (“È successo prima. Ma questa volta sarà l’ultima”). Dunque il regista sta mostrando qualcosa di reale, oppure un lungo e lento sogno? Quella frase ha valore all’interno del sogno stesso oppure viene fuori, a contatto con la sfera del reale? 


Proprio come nelle opere di Leonardo lo sfumato trasporta lo spettatore in un mondo che sembra non esistere, oscillante tra il sogno e la realtà, remoto nel tempo e nello spazio: una bianca nube diventa – in seguito ad un lento allargamento del campo – una cascata. È proprio in questo lento movimento, in questo trasmutare di forme, dai contorni mai netti (ogni inquadratura è risultato di un percepibile lavoro di post-produzione estremamente elaborato, fatto di sovrapposizioni e manipolazioni digitali e manuali; il tutto è, ovviamente, perfettamente amalgamato), nel passaggio graduale da un punto all’altro di questa casa che il film di Barley assume l’aspetto di un’opera che, diventando plastica¹, esce completamente dallo schermo.

Please only watch in complete darkness, on the largest screen possible, with headphones or a quality sound system – VERY LOUD.

(Raccomandazione fattami dal regista)
In altre parole, l’artista ha pensato il film in virtù di una fruizione in precise condizioni: prima di approcciarsi al buio della pellicola è importante che la stanza stessa sia buia e silenziosa; il suono inoltre pone particolare enfasi in alcuni momenti, durante i quali è bene non alzare/abbassare il volume: le urla assordanti diventano parte integrante dell’esperienza cinematografica ed è giusto sottoporsi ad esse. Una visione che non va vista ma vissuta.
Il sonno al quale richiama il titolo diventa quindi una condizione precipua di tale visione: non si può “accedere” alla sua essenza senza abbandonarsi totalmente ad essa. L’oscurità che cala su questa Natura e sugli animali suoi abitanti è frutto di un percorso graduale e impercettibile: le ombre delle urla si arrampicano oltre le colline.
Tecnicamente parlando ogni elemento di Sleep has her house contribuisce ad allontanare quanto più possibile lo spettatore da un approccio razionale (senza però negargliene uno analitico) verso l’incombente catastrofe che è prossima ad avvolgere tutto: le dissolvenze incrociate sono molto lente, indugiano sulla sovrapposizione di due inquadrature, le uniscono per qualche secondo, evocano immagini irreali (ad un tratto una stessa immagine diventa speculare senza che quasi lo spettatore se ne accorga) e dotate di immenso fascino (tutto è stato girato con un iPhone, incredibile vero?); il regista arriva ad un’espressione tale che ogni inquadratura messa in scena è formata in parte da quella precedente e diventa parte di quella successiva.
Ogni sequenza è interamente a rallentatore, seppur il sonoro dica il contrario: la velocità dei ruscelli si attenua, diventano dei laghi; gli animali quasi immobili, la loro fuga verso la foresta sembra essere inutile: l’oscurità raggiunge infine anche loro. Questo scompenso diventa evidente nel momento in cui i suoni iniziano ad essere percepiti come un’organo unico e lungo 90′ minuti, indipendente da ciò che è mostrato ma allo stesso tempo presente in maniera attiva all’interno delle scene.
A sinistra Sleep has her house (2017, 90′) – Scott Barley; a destra Un lac (2008, 90′) – Philippe Grandieux.
Non si confonda ciò che si è appena scritto con un’effettiva immobilità: il regista, attraverso diversi escamotage visivi (molti dei quali realizzati in post-produzione: l’effetto disturbo è uno di quelli più evidenti) non permette mai al film di diventare una sequela di fotografie con un sottofondo ambientale: il cinema è movimento, è tempo impresso². Questo, Scott Barley lo sa bene: Sleep has her house ha il sapore del tempo, e le sue figure sono scolpite in esso.


Riferimenti bibliografici

[1] DENYS RIOUT, L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Einaudi Editore, Torino, 2002, pp. 36-39.
[2] ANDREJ TARKOVSKIJ, Scolpire il tempo, Istituto internazionale Andrej Tarkovskij, Perugia, 2016, pp. 108-117.


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