Lacrime di sangue (L’étrange couleur des larmes de ton corps, 2013, 102′) – Hélène Cattet, Bruno Forzani.
È facile perdersi nei meandri di Lacrime di sangue, nelle sue vetrate caleidoscopiche e nelle sue stanze capovolte; nelle sue zone buie e nei suoi corridoi senza via d’uscita. È facile soprattutto – come nel mio caso – avere sentimenti contrastanti, che possono portare – come nel mio caso, ancora una volta – a trovarsi davanti a due macro-strade.
In sostanza, la base narrativa viene lasciata nell’oblio dal momento in cui lo spettatore inizia ad accusare un vero e proprio bombardamento di immagini e suoni; egli cede dinnanzi a questa prepotenza e si rassegna al fatto che non ci sarà soluzione al thriller e che non c’è altro motivo per continuare la visione se non quello di rimanere – in maniera masochistica – a subire gli incessanti colpi di un duo che proprio non vuole fermarsi dietro quella macchina da presa.
Imboccata la seconda strada ci si trova davanti ad un prodotto che, in maniera fortemente programmatica, sperimenta svariate soluzioni relative a molteplici aspetti del linguaggio cinematografico. Ogni caratteristica della settima arte viene portata all’estremo, distruggendo e ricomponendo costantemente il concetto di “sguardo” e di “percezione“.
Il primo viene demolito dalle costanti associazioni visivo-geometriche che creano delle coppie di immagini con un conseguente zig-zag mentale dello spettatore che inevitabilmente raggiunge un punto di forte confusione, mai creata però con intento puramente violento, ma sostenuta dalla ritmica scansione di queste forme che in un certo qual modo permette di mantenere dei punti fissi ai quali aggrapparsi per non lasciarsi travolgere dal tornado di sensazioni create dal film. Non si supera mai quindi quella sottile linea oltre la quale l’attenzione drasticamente cala a causa del troppo caos generato dalla mano dei due registi: il gioco di rimandi e sovrapposizioni crea sostanzialmente delle ancore visive che tengono insieme il tessuto della pellicola. Ne consegue che anche i momenti più assurdi e inconcepibili (quasi tutti, perlomeno) diventano essenziali in quanto certamente riproposti in altre circostanze del film, assumendo così un valore per lo svolgimento della trama (al di là dell’effettiva chiusura del caso c’è comunque una narrazione – per quanto scomposta).
Ogni cosa guarda un’altra cosa in Lacrime di sangue: i personaggi guardano gli oggetti ma anche gli oggetti guardano i personaggi. Entra in gioco quindi una riflessione sulla possibilità del cinema di creare delle situazioni inverosimili, attraverso per esempio la soggettiva di una ferita, oppure di una goccia. La complessa articolazione di un elemento di base del cinema quale il campo-controcampo – per esempio – diventa strumento attraverso cui si possono creare infinite combinazioni visive (arrivando anche ad infrangere questa regola con il chiaro intento di manipolare la percezione dello spettatore).
Un po’ come fece Bach in L’arte della fuga (paragone giocoso e “largo”, invero), il film di Hélène Cattet e Bruno Forzani parte da una base di genere (il thriller) per sperimentare numerose possibilità offerte da una macchina complessa e sfaccettata come il cinema.
Si passa da riprese in bianco e nero fortemente contrastate molto sotto i 24 frame per secondo (tali da ricordare quasi La jetée di Chris Marker) a colori piatti inondanti corpi umani su sfondo nero (tali da ricordare diverse pellicole di maestri dell’horror italiano come Mario Bava e Dario Argento); da riprese al contrario a sequenze ripetute 2/3 volte nell’arco di pochi secondi; da riprese frontali con palesi green screen sovrapposte a plongèe fino ad arrivare a paradossi visivi e temporali; da focus sugli occhi del protagonista incredulo nel guardare qualcosa a focus sulle orecchie del protagonista in ascolto. C’è davvero tutto in Lacrime di sangue: c’è uno studio programmatico delle possibilità offerte dal montaggio e dalla manipolazione della consequenzialità visiva, dello sguardo e della percezione, appunto.
Ci sono davvero tante cose che vengono spezzate e ricomposte in maniera apparentemente disordinata nel film. Ho ritenuto opportuno però – per non appesantire eccessivamente la lettura – non citarne alcune per non ridurre parte dell’articolo ad una mera successione di elementi. Sperando che quelle poc’anzi nominate siano sufficienti a rendere, seppur in maniera generica, la mole di lavoro posta alla base di questa pellicola e la sua complessa articolazione.
C’è anche un certo autocompiacimento, inutile negarlo. È anche comprensibile data la stretta morsa che i due registi sono riusciti a tenere per tutta la durata del film. Si ha quindi la sensazione, a tratti, che una inquadratura x, estremamente ricercata, non abbia alcuna funzione particolare se non quella superficialmente disinteressata di insistere sulla natura sperimentale del prodotto. Fortunatamente sono solo lievi sbavature in un grosso dipinto.
I fiammiferi, infine. Oggetti che compaiono più volte durante il film e che diventano un punto fermo all’interno della visione. Fiammiferi che emanano luce ma non illuminano. Fuoco che tenta disperatamente di trovare delle forme all’interno dell’oscurità; essi però si spengono nel buio.
Proprio come il protagonista si muove all’interno di questa stanza buia che è Lacrime di sangue, così lo spettatore non può fa altro che tastare attorno a sé il terreno e gli oggetti per non perdersi o addirittura cadere rovinosamente.
Il fiammifero quindi diventa un simbolo che sottolinea ancor di più la complessità di una pellicola che riesce a rimanere oscura e a imporre una propria personalità, non completamente conoscibile e soprattutto padrona (e manipolatrice) dello sguardo e della percezione. Il cinema che dimostra di riuscire ancora a parlare di cinema.
Quasi dimenticavo: io ho imboccato la seconda strada.
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