Hagazussa (2017, 102′) – Lukas Feigelfeld.
Uno degli ultimi articoli su Il tempo impresso – Lotta tra suono e immagine in ricordo di Kynodontas – dedicava parte di sé all’”eredità” che la pellicola di Yorgos Lanthimos ha lasciato sui registi emergenti a distanza di pochissimo tempo dalla sua uscita; su quella scia, seppur con risultati a modo loro diversi, si inserisce Hagazussa.
Il lungometraggio d’esordio del regista pare, almeno nelle prime battute, una sorta di parente – non troppo lontano – di The VVitch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015, 92′) – Robert Eggers: la vicenda stessa, ambientata in una zona isolata di montagna nel XV secolo e sviluppata attorno alla paranoia e alle credenze dei contadini nei confronti di streghe, demoni e figure ancestrali, è molto vicina a quella del film del 2015.

In sostanza, dunque, ci si trova davanti a molti di questi elementi che, però, in Hagazussa, sono più accentuati in quanto portati alla loro essenza: la cupezza che permea il tutto e la sensazione che questo microcosmo sia mentale piuttosto che fisico è immediatamente percepibile (quasi non ci sono dialoghi, tutto è spostato sul piano psicologico): non c’è nulla che faccia pensare realmente che la protagonista e sua madre (che muore nel primo atto, prima di lasciar spazio ad un flashforward di una ventina d’anni) siano delle streghe, o che ci sia qualche forza demoniaca a muovere le fila delle vite degli abitandi di tale luogo; il minimalismo del film lascia molto al non detto.
L’immaginario cinematografico di Feigelfeld, molto saggiamente, fa appello ad alcuni registi i quali, in un modo o nell’altro, hanno trattato temi analoghi o hanno creato opere dal carattere e atmosfera simili a quello di Hagazussa: non è difficile infatti intravedere alcune scelte riconducibili a Hors Satan (2011, 110′) – Bruno Dumont e Antichrist (2009, 108′) – Lars Von Trier: il campo-controcampo tra uomo e natura (all’interno della quale esso non è altro che un minuscolo organismo) è frequente, come lo è il costante ritorno (per un motivo o per l’altro) alla tetra foresta (Eden) dell’opera di Von Trier.
Se del regista danese però rimangono dei richiami sostanzialmente visivi, di Dumont si avverte la glacialità compositiva (e non solo) da parte di Feigelfeld: le inquadrature sono ferme e distanti, la macchina da presa spesso e volentieri si pone alle spalle del soggetto e non intraprende con lui alcun dialogo; il pallido volto della protagonista, affogata nelle verdi scenografie fotografate con una palette cromatica ridotta all’osso, trasmette un senso di inquitante quiete; una sensazione di cui era pregno anche il già citato The VVitch





Dissonanze e consonanze a parte, Hagazussa ha il grande pregio di essere un film ambizioso, con uno sviluppo non convenzionale, scardinante la comune scansione narrativa di un horror che punta a creare disagio con l’andare avanti dei minuti. La sua staticità crea, da un certo punto in poi, uno dislivello narrativo molto interessante: Feigelfeld blocca la progressione, affida tutto al silenzio e alla mimica della sua protagonista; annulla gli eventi ad un certo punto, pone un freno ad eventuali sviluppi. Fa diventare il suo film – in poche parole – chiuso. Ne consegue che alcuni suoi tratti smettono di essere interessanti o affascinanti ma semplicemente incomprensibili (per esempio il fatto che sembrino esserci effettivamente delle forze sovrumane ad agire, rompendo quindi quell’aura di “realismo” che permea il film durante tutta la prima parte).
Proprio sulla base di ciò viene formulato il “nucleo” dell’articolo: la chiusura di Hagazussa spesso da prova di un’incoscienza di fondo, di un ermetismo fasullo e mal celato. Il “cinema poetico” contro il quale Andrej Tarkovskij (e altri registi sulla sua scia) si scagliava è proprio questo: un cinema fatto di geroglifici, di segni significanti qualcosa, di chiusura in sé stessi e non per sé stessi.
Hagazussa si chiude, dunque, eppure prima di un atto scellerato mostra un personaggio mordere una mela; Hagazussa si chiude, eppure prima di un atto ancor più scellerato mostra un serpente insinuarsi nel letto di un futuro omicida; Hagazussa si chiude, eppure ogni inquadratura di monti nebbiosi tra una scena e l’altra da l’impressione di essere un generico presagio oscuro nonché momento intermedio per giustificare degli stacchi di montaggio.
Non si vuole screditare la scelta dell’utilizzo di simbologie all’interno della propria opera, quanto un uso di esse in un contesto che sembra volerle eliminarle e aspirare a qualcosa di altro.




In conclusione il film porta con se la lezione di Dumont e Von Trier, del glaciale distacco di uno e della potenza espressiva dell’altro, ma il suo vero legame è quello con Eggers e The VVitch, il quale viene superato dall’ambizione e dalla chiara volontà da parte di Fiegelfeld di andare oltre le convenzioni del genere ma che vince il confronto con Hagazussa per il semplice fatto di essere un film certamente più lineare ma più solido e coeso. Non basta la peculiare sostanza scenica a fare del film un buon prodotto, seppur il regista dia prova di una non indifferente premura nel costruire un film che inquieti in una maniera fascinosamente ancestrale e allusiva senza essere mai sopra le righe. Ancora una volta – come nell’articolo cui si faceva riferimento all’inizio – ci si trova davanti ad un esordio il quale è apprezzabile per l’audacia e l’elevata qualità tecnica ma che inciampa in un po’ troppa presunzione e poco controllo della propria opera.
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