Szenvedély (1998, 155′) – György Fehér.
Si era scritto – riguardo a Szürkület (1990, 105′) – che «nell’opera metafisica di Fehér si distingue […] uno stile che è memore (e consapevole) di quello messo a punto da Tarr nel suo Perdizione (Kárhozat, 1988, 120′) ma che porta ad una solennità del tutto diversa, carica di un’aura trascendentale che certo non è propria del regista di Sátántangó;». Con Szenvedély si ha una sorta di passaggio da un’aura metafisica ad una religiosa, elemento fondamentale di una pellicola che torna – con la sua macchina da presa – coi piedi per terra e che lascia a Dio e alla giustizia divina il compito di osservare le cose dall’alto.
Ed ecco che le inquadrature di Szenvedély non salgono più in alto quanto quelle del precedente film ma al contrario sono ben ancorate ad altezza d’uomo: addirittura arrivano ad abbassarsi ancor di più, a mostrare lo sporco dei terreni costantemente fangosi. Perché questo è un film di uomini che hanno a che fare con altri uomini e con la giustizia degli uomini la quale si rivela, infine, non essere abbastanza.
Il triangolo formato dal padrone, sua moglie e un aiutante d’officina diventa dalla prima inquadratura – quasi un prototipo dell’incipit de Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000, 145′) – Béla Tarr e delle scene al tavolo de L’uomo di Londra (A londoni férfi, 2007, 139′) – emblema di questo film di uomini, avidi, innamorati, folli e crudeli. Gli ultimi due danzano sotto ordine del padrone, soffocando il loro amore e umiliandosi; progettano di ucciderlo e di incominciare una nuova vita.


È dunque ha inizio la storia di questi due, desiderosi di uscire dalla gabbia entro la quale il padrone li ha confinati: una gabbia amorosa per lei e sociale per lui; l’unica soluzione è l’assassinio. Eppure qualcosa va storto, non si sa se per una casualità o per un inconscio tentennamento da parte di lei (tant’è che subito dopo il fallimento la donna decide di tornare dal marito). Tutto torna come prima, come in quella terribile prima sequenza che Fehér si cura – con delle piccole variazioni – di ricreare in maniera simmetrica, insistendo sulla circolarità del tutto, su quella gabbia che a pensarci sarebbe più corretto chiamare circuito, il quale dopo numerose curve porta inevitabilmente a ricominciare da capo: ed è in quest’ottica che diventa importante il ruolo dell’auto, che porta via i protagonisti e che subito dopo li riporta al punto di partenza.
L’omicidio finalmente riesce, ma i due vengono scoperti: ai due uomini si aggiungono altri uomini, un tribunale ed un investigatore per essere precisi: ambasciatori della giustizia degli uomini nella costante e ossessiva ricerca di portare ordine nel mondo degli uomini (in un certo senso è proprio questo che muove anche il protagonista di Szürkület).
Come scritto sopra, questa giustizia non basta, o meglio, non è quella realmente importante. I due amanti/complici si ritrovano catapultati ancora una volta al punto di partenza, in quella stessa casa nella quale hanno passato terribili momenti: non c’è via d’uscita da quel fangoso luogo, e non ha importanza quale sia il motivo; il circuito ricomincia da capo… Fino a quando non si sbanda.
È chiaro che se in Szürkület la macchina da presa visivamente onnipotente di Fehér aveva un fondamentale ruolo di disvelamento di corpi e forme attraverso l’uso di lunghi piano-sequenza, in Szenvedély diventa uomo-spettatore dello spettacolo di uomini, stando loro vicina e osservando quietamente lo svolgersi freddo e distaccato degli eventi. Una volta svolto il processo e – in maniera piuttosto dozzinale – assolti i due ecco che il tono cambia ed entra in gioco l’unica e vera giustizia (nell’ottica del film): quella di Dio. L’utilizzo intenso di luci atte a creare un forte contrasto cromatico intensifica la presenza di un’aura religiosa che trova riscontro – praticamente – nelle parole dell’investigatore: «Sei appena sfuggito alla giurisdizione umana, ma Dio ti abbatterà, prima o poi». E addirittura le parole di un prete perdono di valore davanti all’omicidio: l’amore non è sufficiente per la redenzione.
La pellicola di Fehér, in conclusione, verte su un aspetto del castigo interamente religioso, nel quale assume una fondamentale importanza la posizione dei due protagonisti davanti a Dio e non davanti alla legge, aggirabile attraverso abili e subdoli sotterfugi. Il contrappasso si risolve e la pellicola assume una connotazione religiosa molto spiccata, con tanto di discorso finale del prete ed estratto dal Libro della Rivelazione.
«Siamo di nuovo al punto di partenza» dice lei.
Improvvisamente il cerchio si spezza: il veicolo sbanda.
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