Gus Van Sant, Psycho, 1998, 105′
Nota: nel corso dell’articolo aggiungerò la data d’uscita del film a cui si fa riferimento ogni qualvolta verrà nominato, onde evitare fraintendimenti: Psycho (1960) e Psycho (1998).
Psycho (1960) è un barattolo di zuppa, oppure è Marilyn Monroe, oppure ancora una bottiglia di Coca-Cola. Può essere anche tutte queste cose insieme, non è poi così tanto rilevante. Sarà scelta la zuppa in questo specifico caso perché è davvero buona la zuppa.
Prima di iniziare l’articolo però è bene – e necessario – porre alcune premesse per chiunque stia già strappando i capelli dalla propria testa, offeso da un film che ha osato “toccare” il grande capolavoro di Hitchcock (qualora dovesse esserci – lecitamente – qualcuno in questa situazione): non ci si trova davanti ad un becero remake atto a guadagnare sfruttando un nome famoso; non ci si trova davanti ad uno di quei casi nei quali ci si chiede: «Ce n’era bisogno?»; non ci si trova davanti ad un remake che, nel pieno rispetto del suo “prototipo”, viene reinventato (come Nosferatu, il principe della notte di Werner Herzog).
Gus Van Sant opera in maniera chiara verso il film di Hitchcock: la sua è una riproposizione fedele al 99%, tale da creare una sorta di “clone” di Psycho (1960): un omaggio, dunque, ma non solo.
Sfatare il pregiudizio verso il concetto di “remake” in questo caso è molto semplice in quanto si può brevemente mettere in chiaro un dato fondamentale per comprendere il rapporto tra Psycho (1998) e Psycho (1960): una copia così tanto precisa e impeccabile non può che sottolineare una volontà da parte del regista di eclissarsi quasi totalmente, di far scomparire la sua figura davanti al monumento del regista britannico. Viene meno quindi l’idea stessa di sfruttare il remake di un grande titolo per farsi un nome o per “vincere facile”.
Nel suo Dizionario dei film Paolo Mereghetti vede Van Sant affrontare Psycho (1960) «come se fosse un testo di Shakespeare o una sinfonia di Beethoven: non cerca il remake o la copia, punta sull’interpretazione e sul riarrangiamento». Per quanto interessante sia questa prospettiva (condivisibile e comprensibile), Psycho (1998) ha un sapore fortemente diverso: sa di Pop art. L’opera viene creata come rappresentazione di qualcosa (questa affermazione non deve essere confusa col concetto che sta alla base di un opera come Il tradimento delle immagini di René Magritte): così facendo ciò che è “popolare” diventa in un certo senso “elitario”; l’arte che nasce dal consumo (dal pop, appunto) e che, a differenza di movimenti come il Dada, non vuole sminuirne la condizione o essere dissacratoria/sarcastica.

Quest’opera inaugura una delle correnti artistiche più importanti del XX secolo (non è propriamente corretto in quanto dal punto di vista cronologico essa è nata in Inghilterra, ma non avendo avuto uno sviluppo mastodontico quanto quello degli USA si è soliti dire, come in questo caso, che essa sia nata nel continente americano) ed è incredibile pensare che si tratti letteralmente di 32 semplici barattoli di zuppa. In ognuno di essi però sono contenute e ribadite alcune tra le principali idee alla base della Pop art: l’arte percepita e creata in termini di ripetizione piuttosto che di unicità; l’assenza di qualunque elemento che esalti la capacità dell’artista o la sua espressione individuale (in aperta contrapposizione all’espressionismo astratto); lo sguardo al mondo della comunicazione di massa o “popolare” (i fumetti e la pubblicità, ad esempio).
In virtù di questi concetti diventa chiaro il motivo per il quale Warhol sceglie di rappresentare dei barattoli di zuppa: essi sono il cibo standard dell’americano standard: «Ero solito mangiarla, ero solito consumare lo stesso pranzo ogni giorno, per 20 anni».
L’attenzione all’americano medio da parte di Warhol dunque diventa la base della sua Pop art, della corrente che non fa arte per l’élite ma per il popolo, per la massa: «Non credo che l’arte debba essere solo per pochi eletti, credo che debba essere per la massa del popolo americano che di solito, comunque, accoglie bene l’arte.»1 Un’idea, quella dell’artista (come di molti altri), che presenta una contraddizione interna. Per far in modo che il pop diventi arte è necessario che un artista colto effettui «una scelta sofisticata e sostanzialmente elitaria di motivi popolari» destinando l’opera «a un ambiente ristretto e raffinato.»2 Ne consegue che Psycho (1998) è un prodotto elitario mentre Psycho (1960) è un prodotto popolare. Sotto quale punto di vista?
Nota: al termine “popolare” non deve essere data un’accezione negativa in questo contesto
Il capolavoro di Hitchcock è stato il suo più grande incasso, un cult indiscusso che tutti conoscono e che tutti hanno visto o per lo meno hanno sentito nominare; è stato inoltre un film che, a detta dello stesso Hitchcock, non aveva nessun intento particolare se non quello di puntare sulla tecnica, sul suo aspetto superficiale: su quello, insomma, che colpisce ogni tipo di spettatore (la massa):
La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa a cui tenevo di più. In Psyco del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soffisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare una emozione di massa. E con Psyco ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico, è stato il film puro.3
Gus Van Sant quindi prende questo barattolo cinematografico di zuppa, lo imprime su una pellicola e lo fa diventare un prodotto artistico “dedicato” ad una cerchia più ristretta di pubblico (il barattolo di zuppa, o meglio, la sua rappresentazione, è posto in un museo, luogo decisamente più elitario di un supermercato). Tale rappresentazione non porta con sé il valore intrinseco dell’oggetto “originale” ma si carica di un valore estrinseco in quanto opera di pop art. Esso però si rivolge ad una cerchia più ristretta di spettatori, quella che ha intenzione di fruire del film come un’operazione filologica di trasposizione da una cultura all’altra, da un periodo storico che seguiva alcune leggi ad un altro che ne ha di nuove e ne ha abolito di vecchie (non a caso il film di Gus Van Sant è ambientato nel 1998 e non nel 1960; non a caso, ancora, il film è a colori e non in bianco e nero). Si potrebbe dire che la qualità di Psycho (1960) stia al suo interno e quella di Psycho (1998) al suo esterno; si potrebbe dire, inoltre, che il remake di Van Sant sia rivolto a coloro i quali sanno cosa aspettarsi (nessuno andrebbe in museo con l’intento di comprare della zuppa, no?).
Come accennato e ribadito più volte nel corso dell’articolo, Psycho (1998) non è una copia perfetta dell’opera di Hitchcock: il regista si prende alcune libertà che da un lato cercano di “tappare” alcuni buchi presenti nell’opera del ’60, causati principalmente da carenza di mezzi e danaro (il dolly iniziale ad esempio); d’altra parte aggiunge qualche piccolo elemento e gestisce poche situazioni seguendo delle scelte che però mai vanno ad intaccare eccessivamente la solidità del film originale: i suoi aggiustamenti, le sue aggiunte e i suoi rimandi non sono mai irrispettosi, al contrario danno a Psycho (1998) un valore aggiunto che mette in luce un reale impegno da parte del regista il quale non si è limitato ad un passivo copia-incolla; in un certo senso è come vedere la faccia di Andy Warhol – di ridotte dimensioni – alla base dei suoi barattoli di zuppa.
La visione di Psycho (1998) diventa occasione per studiare ed essere testimoni del modo in cui il cinema può mettere in atto la sua caratteristica intrinseca di “mezzo di riproduzione meccanica della realtà” (i barattoli dopotutto sono delle copie in serie, seppur con delle variazioni di tela in tela), mettendo in risalto escamotage, strutture e scelte autoriali che hanno contribuito a fare di Psycho (1960) il capolavoro che è. Introducendo in esso delle variazioni, Gus Van Sant ha dimostrato inoltre quanto l’arte cinematografica sia composita e soprattutto scomponibile, dando la possibilità all’artista di separare i vari frammenti che la compongono inserendo tra di loro degli elementi aggiuntivi, manipolandone altri e sostituendone altri ancora.
Warhol probabilmente sarebbe stato entusiasta nel guardare l’opera di Van Sant. Ne avrebbe estrapolato delle inquadrature e le avrebbe appese vicino ai suoi barattoli, alle sue Marilyn e alle sue bottiglie di Coca-Cola.

Riferimenti bibliografici:
1 ANDREA MECCACCI, Introduzione a Andy Warhol, Laterza, 2008.
2 P. DE VECCHI, E. CERCHIARI, Arte nel tempo – Dal Postimpressionismo al Postmoderno, Bompiani, Milano, 2001, p.612.
3 FRANÇOIS TRUFFAUT, Il cinema secondo Hitchcock, Il saggiatore, Milano, 2009, p. 233.
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