Hapax Legomena I: Nostalgia (1971, 36′) – Hollis Frampton.
Un fotografo che osserva le proprie fotografie si trova davanti a due “memorie”: la Memoria, che è quella impressa sulla carta, davanti alla macchina fotografica, l’impronta di luce catturata; quella perpetua insomma, il volto di una bambina che per sempre rimarrà giovane o le foglie di un albero che non cadranno mai; c’è la memoria, poi, quella che è dietro la macchina fotografica, il ricordo dell’artista che ha impresso quella luce. Il ricordo legato alle sensazioni, al soggetto, al momento. Può essere un pensiero sull’atto di fotografare o semplicemente un aneddoto. Quest’ultimo – il ricordo – però non è perpetuo, anzi: esso sbiadisce col tempo, si consuma come una fotografia divorata dal fuoco.
I termini Memoria e memoria saranno utilizzati nel corso dell’articolo per semplificare questa contrapposizione di concetti. I modi per definirli sono numerosi però questo sembra il più adatto in questo contesto. Essi possono essere facilmente sostituiti: quest’esposizione è puramente di convenzione.
Hapax Legomena I: Nostalgia quindi parte da queste due “memorie” e ne fa il suo nucleo costitutivo: ogni sequenza del film è composta da una fotografia che lentamente viene bruciata da una resistenza elettrica posta sotto di essa (quando il foglio è ridotto in cenere la sequenza finisce e la successiva inizia dopo qualche secondo di schermo nero); una voce narrante parla di queste fotografie, dei soggetti rappresentati, del giorno in cui sono state scattate o di eventi ad esse collegate.
Ci sono quindi più piani sopra i quali il film si sviluppa e verso i quali lo spettatore è chiamato a portare attenzione: quello del contenuto della foto, che sia un paesaggio o un ritratto di Frank Stella, quello del ricordo del fotografo e soprattutto quello del ricordo dello spettatore. È lecito infatti chiedersi per quale motivo Frampton abbia girato un film su qualcosa che, date le premesse, non ha molto di cinematografico. La risposta arriva nei i primi 5 minuti, dopo i quali ci si chiede se ci sia effettivamente qualcosa di “sbagliato” in tutto ciò.

Subito dopo la prima fotografia ci si accorge che la voce fuori campo non ha a che fare con le due “memorie” della fotografia protagonista della scena ma con quelle della successiva: c’è, in breve, uno sfasamento del rapporto audio-video del “valore” di una sequenza. Questa distorsione – che ricorda un esempio fatto da Gilles Deleuze riguardo le specificità dell’arte cinematografica¹ – fa entrare in gioco la terza “memoria”, questa volta non del fotografo/regista ma dello spettatore. Egli è portato dunque a fare uno sforzo mnemonico per cercare di afferrare quante più informazioni possibili concesse dalla voce narrante in attesa della scena successiva nella quale avrà davanti l’oggetto da osservare. Oltre all’implicita richiesta di fiducia verso lo spettatore (che non può fare a meno di dare per buone le parole della voce fuori campo riguardo un oggetto che – a modo suo – è anch’esso fuori campo) vi è una richiesta di attenzione e concentrazione, costantemente messa a dura prova da un’immagine che non è l’oggetto della descrizione.
Vien da sé che con l’avanzare del film questo scontro tra l’occhio e l’orecchio dello spettatore porta ad una crescita costante della sua capacità di metabolizzare nel minor tempo possibile le parole e le immagini. Lo spettatore di Hapax Legomena I: Nostalgia è «uno spettatore coinvolto e trascinato dal movimento, costretto a fissare lo sguardo su uno svuotamento progressivo dell’immagine»²: la fotografia compare all’inizio della sequenza e muore con essa, bruciata dalla resistenza incandescente. La memoria dello spettatore deve quindi sforzarsi di imprimere quanto più possibile un’immagine (fotografica) che svanisce lasciando vuota la sua immagine (cinematografica) sovrastrutturale.
La compenetrazione di passato, presente e futuro è una delle caratteristiche più interessanti dell’opera: ponendo lo spettatore davanti ad un’immagine che è già “passato”, in quanto la voce fuori campo – che è il “presente” – è proiettata verso il “futuro”³, ovvero la foto successiva, essa libera un insieme di fattori che sono pienamente cinematografici e propri di un linguaggio che, condividendo alcuni caratteri della fotografia, se ne distanzia per la sua natura in divenire e metamorfica.

Il metodo di Frampton […] slega l’immagine dalla storia, pone quest’ultima, che è, dopo tutto, una forma narrativa al presente, nel costante pericolo di essere assorbita dall’immagine che brucia (ossia, il passato). In questo senso il film non mette in scena solo la nostalgia e la melanconia, ma anche lo shock. Lo stato di costante pericolo in cui viene impietosamente, ripetutamente posta la capacità di contemplazione dello spettatore, provoca una ansietà tale da produrre «una breccia nello scudo contro gli stimoli», che lo rende vulnerabile alla forza tattile del film⁴.
Hapax Legomena I: Nostalgia è un invito alla concentrazione e all’attenzione rivolto sia allo spettatore in quanto tale ma anche allo spettatore in quanto uomo, un elogio delle piccole storie, quelle che spesso non rimangono nel tempo e che Hollis Frampton ha ben pensato di “incidere” sulla pellicola. Un atto d’amore verso la fotografia, verso il cinema, verso la Memoria e la memoria.
Riferimenti bibliografici:
¹ https://youtu.be/eI1zLKFM-do
² TOMMASO ISABELLA, Fotografia, cinema, melanconia. Il silenzio dell’immagine in (nostalgia) di Hollis Frampton, «Elephant & Castle», 2017, p. 13.
³ «L’immagine che brucia rappresenta un passato che, sottraendosi e consumandosi, tenta di trascinare con sé il presente e il suo slancio» in TOMMASO ISABELLA, Fotografia, cinema, melanconia…., «Elephant & Castle», 2017, cit., p. 19.
⁴ RACHEL MOORE, Hollis Frampton. (nostalgia), London 2006.
Rispondi