Sj. Ramir, My song is sung, 2016, 7′.
Excursus Laterale è una rubrica che ripercorre la storia del Laterale Film Festival attraverso le opere proiettate nelle precedenti edizioni. Attraverso questi articoli si proverà a creare una «vera e propria raccolta di testi relativi alle opere di questi artisti invisibili, affinché il loro lavoro possa uscire al di fuori delle quattro mura della sala e rimanere in contatto con il pubblico delle precedenti edizioni e con quello – anch’esso invisibile – delle successive».
Excursus Laterale – Catalogo
Post esistenza: My Song Is Sung esamina lo spazio fisico non più occupato.¹
Lo spazio «non occupato» di My song is sung è meno occupato rispetto agli altri spazi (anch’essi non occupati) che si intravedono nei film di SJ. Ramir², in quanto l’assenza qui non è “mostrata” come conseguenza di un abbandono (che ha in genere un proprio spazio nell’opera e che certo è necessario per poter privare un luogo di una presenza) ma come fatto già compiuto.
Assenza di chi? Chiaramente dell’uomo, in quanto ogni elemento di My song is sung sembra mettere in risalto una precedente presenza umana (oggetti di uso comune quali una teiera, un cucchiaio, un telefono, più in generale un’abitazione) e allo stesso tempo una presenza costante che è quella della natura, ovvero il “luogo” rimasto in conseguenza dell’abbandono dell’uomo.
Scrive il regista riguardo quest’assenza (il testo è riportato quasi per intero in quanto enormemente prezioso):
Un giorno nel nostro cortile trovai un’ape con un’ala mozzata. Non poteva volare via. […] Non sarebbe arrivata da nessuna parte. Osservai l’ape per una decina di minuti lottare con la crudeltà della fisica, fino a quando ebbi l’idea di incollare nuovamente la sua ala. Entrai e misi sottosopra la cucina alla ricerca di un tubetto di colla che sapevo fosse nascosto da qualche parte negli armadi o nei cassetti. […]
Con le migliori intenzioni del mondo, uscii con la colla e iniziai ad aiutare l’ape. Sapevo solo che se avessi potuto riparare la sua ala tagliata, l’ape sarebbe potuta tornare a casa e vivere una vita lunga e felice.
Spruzzai un po’ di colla sul cemento accanto all’ape. Immersi la parte tagliata della sua ala nella colla e provai ad attaccarla al corpo dell’ape – sul lato opposto dell’altra ala, ma non fu d’aiuto al fatto che l’ape stesse girando ad un ritmo frenetico e la colla continuasse a scorrere dall’ala dell’ape che tenevo tra le dita. Mi asciugai la mano sul fianco dei pantaloni, ma dimenticai che anche io tenevo l’ala, così l’ala mi si appiccicò ai pantaloni. Alla fine riuscii a togliermela dai pantaloni, ma ora era strappata in due punti – e durante la lotta per liberarla dai miei pantaloni, era rimasta bloccata fino alla punta del mio dito. Guardai l’ape, aveva smesso di girare – probabilmente dalla fatica. Poi feci quello che si potrebbe scusare solo ad un bambino piccolo – persi completamente l’interesse per il compito e andai via.
Due giorni dopo, mi svegliai presto la mattina e rimasi a letto. Mi guardai le mani e notai che c’erano ancora dei pezzetti di colla su di esse e qualcosa di insolito attaccato all’estremità di una delle mie dita. Poi mi ricordai dell’ape. […] L’ape era dove l’avevo lasciata, […] ma completamente senza vita e macchiata nella rugiada del mattino. Mi chinai e la studiai. Gran parte dell’ape era scomparsa. C’erano un certo numero di formiche che tiravano le restanti parti del corpo dell’ape. […] Pungolai i resti dell’ape e le formiche scapparono verso i bordi del prato. Mi chiesi dell’ape. Mi chiesi cosa avrebbe riempito lo spazio che aveva abitato una volta scomparsa completamente? Cosa sarebbe accaduta all’energia e al movimento che aveva generato un tempo? […] Per molti anni a seguire, vagai da solo attraverso la foresta vicino casa nostra, alla ricerca di altre creature e insetti morti, osservandoli dopo la morte, la loro immobilità, la loro irrilevanza verso l’ambiente che un tempo occuparono.³
In This Valley of Respite, My Last Breath… (2017, 5′) – JS. Ramir. GIORGIO MORANDI, Grande natura morta scura, 1934, acquaforte, 300 x 393 mm, Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. My song is sung (2016, 7′) – SJ. Ramir. REMBRANDT, La conchiglia, 1650, acquaforte, puntasecca e bulino.
My song is sung è un’opera disarmante per quanta intimità permette a sé stessa di osservare. Come visto in un articolo precedente di Excursus Laterale relativo a Piorun Stanislaw from Brudnow (2014, 4′), gli oggetti sono frammenti di memoria dell’abitazione, parte dell’esistenza di un uomo che, a quanto pare, non c’è più. Così come nelle nature morte di Giorgio Morandi (cos’è questo film se non una natura morta cinematografica?) «l’oggetto non è più dato reale, ma sedimentazione del ricordo»⁴: il film di Ramir è quindi il ricordo di una presenza, l’osservazione di uno spazio abbandonato da non così tanto tempo (la mela tagliata sul tavolo dopotutto è ancora matura).
Improvvisamente il telefono squilla, rompendo “in assenza” l’assenza di My song is sung: da lontano arriva una presenza non fisica – quella di chi sta telefonando, rinnovando ancora l’idea che l’uomo non più presente se ne sia andato da relativamente poco tempo – che riempie l’aria della casa; la macchina da presa continua a fissare il telefono; nessuno risponde.
My song is sung (2016, 7′) – SJ. Ramir. KEN ROSENTHAL, A dream half remembered #SSO-1244-2, 2005, 38,1 x 38,1 cm.
A questo punto lo spettatore è tale allo stesso modo della mdp: un fantasma che osserva i ricordi – sotto forma di oggetti fisici e naturali – di un luogo all’interno del quale è rimasto solo lo sguardo del cinema in qualità di occhio astratto che rimane dopo la morte. My song is sung, in italiano La mia canzone è cantata, è la testimonianza di un uomo che ha cessato di esistere (un canto del cigno) e che osserva i suoi ricordi dall’aldilà, da un punto di vista coincidente con quello della macchina da presa: egli non può rispondere al telefono perché non è un essere tangibile. La sua vita è definita da pochi elementi, quelli di una vita semplice. Come per Morandi, infatti, la casa è un’entità molto importante nel film e nell’opera del regista: è essa il luogo che prima di tutti viene abbandonato ed è anche il luogo che porta con sé l’assenza più presente, quel nero denso che è assenza di colore pur essendo allo stesso tempo tattile e tangibile, qualcosa che non nasconde lo spazio ma lo riempie.
Ciò che resta da fare al fantasma dell’uomo è uscire, accarezzare l’erba e fissare la luna, in attesa del suo disgregarsi.
My spirit however, wandered throughout the valley without purpose for many days… until it too, slowly fell victim to decay…⁵
Bibliografia
¹ Tagline/sinossi del film.
² Ad esempio in In This Valley, My Heart Is Buried Deep l’abbandono precede l’assenza.
³ http://sjramir.blogspot.com/search/label/Writing
⁴ G. MARIANI, Esempi di grafica del novecento italiano, in Le tecniche calcografiche d’incisione indiretta, Acquaforte, Acquatinta, Lavis, Ceramolle, a cura di IDEM, Roma 2005, p. 105.
⁵ Da In This Valley, My Heart Is Buried Deep.
http://sjramir.blogspot.com/
http://www.ramirfilms.co.nz/
https://vimeo.com/sjramir/
https://www.kenrosenthal.com/
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