Andrò a ritroso della nostra corsa (2019, 3′) – Mattia Biondi.
Andrò a ritroso della nostra corsa
Viaggio di andata e ritorno – Vittorio Sereni.
di poco fa
che tanto bella mai ti sorprese la luna.
Mi resta una città prossima al sonno
di prima primavera.
O fuoco che ora tu sei
dileguante, o ceneri confuse
di campagna che annotta e si sfa,
o strido che sgretola l’aria
e insieme divide il mio cuore.
Una piccola e intensa forma lirica di un cinema che guarda indietro mentre si muove in avanti, che è conscio del fatto che la memoria continua ad allontanarsi e che le strade continuano a scorrere e a perdersi all’orizzonte. Non si può neanche pensare di fare una fermata: la macchina cammina inesorabile e al cineasta non resta che guardare le linee della sua strada dissolversi.
Le immagini del film di Mattia Biondi però non sono testimoni di ricordi quanto dell’atto stesso del ricordare (le riprese scorrono al contrario d’altronde) e del guardare dentro al proprio percorso, attraverso un tempo che il cinema può presentare nella contemporaneità di un un passato che si allontana, di un presente che guarda e di un futuro che è fuori campo e che man mano entra nell’inquadratura. Le “informazioni” che vengono date dalle immagini di Andrò a ritroso della nostra corsa si rinnovano costantemente nel restringersi del fondo di una strada che allo stesso tempo continua a formarsi nell’inquadratura. E così diventa estremamente piacevole e malinconico voltarsi verso il tempo che è passato, quasi come se l’orologio della propria vita fosse invertito e si tendesse a ciò che è stato piuttosto che a ciò che sarà. Beninteso, non si tratta di un crogiolarsi in quel tempo; il regista cerca qualcosa lì dentro, tenta di afferrare degli scorci che secondo dopo secondo diventano più piccoli fino a scomparire.
Nel tentativo di catturare immagini passate.
Cambiare la prosa del mondo,
Cambiare la prosa del mondo – Amelia Rosselli.
il suo orologio intatto,
quel nostro incorniciare le giostre
faticose di baci.
Hai inventato di nuovo la luna,
è una povera isola
ti chiama con contingenza disperata
imbastardita dalle lunghe cene.
Due vettori, quindi: il primo associabile a quello che si identifica con il tempo comunemente inteso1; il secondo, invece, è sovrapposto al primo e procede nella stessa direzione ma si forma al contrario. Il suo punto d’inizio (non raggiunto ancora) è la fine e la sua freccia è rivolta verso ciò che è stato, verso ciò che la macchina da presa insistentemente guarda: un formarsi di un percorso formato, un rivedere l’ordine del tempo, capovolgerne visualmente l’inizio e la fine, trasformarlo in una sorta di paradosso cinematografico laddove il movimento dell’immagine (che va in avanti) esiste solo in relazione ad un dissolversi di ciò che è dietro e non ad un formarsi di ciò che è avanti.
Dopotutto Andrò a ritroso della nostra corsa non è altro che una scelta dell’occhio dettata dall’impossibilità di guardare il tutto2 e allo stesso tempo un tentativo di afferrarlo (il fondamento del film è infatti questo rapporto/scontro costante tra i due vettori di cui sopra, dato soprattutto dalla scelta di riavvolgere i nastri di queste strade che si stanno raggiungendo e che, in tal contesto, diventano strade che si stanno abbandonando).
Infine una considerazione drammatica sopraggiunge: la strada passata inizia a farsi nebbiosa e lo sguardo della mdp non riesce a scrutare neanche gli spazi più vicini. Che triste destino quello dell’uomo, in fondo, condannato a perdere il suo passato centimetro dopo centimetro. Il tempo passa e i ricordi si accumulano, si scartano, alcuni di essi si mescolano e altri ancora scompaiono per sempre. È in quel luogo della memoria che il cineasta concentra la sua attenzione, cercando qualcosa tra la nebbia.
«C’è sempre un luogo più a fondo, immagini perdute dentro minimi intervalli».
Bibliografia
1 In L’ordine del tempo Carlo Rovelli tratta ampiamente la questione.
2 Si notino la presenza – nella parte finale del film – di un frammento dell’ultimo movimento del Lamentate di Arvo Pärt, il fatto che l’opera sia stata dedicata ad Anish Kapoor e al suo Marsia (qui un ulteriore link di riferimento) e come il tempo sembri non esistere nella scultura dell’artistia indiano (a detta del musicista). Questa atemporalità è percepibile nel film in virtù del suo movimento che contrasta con la «prosa del mondo» e soprattutto il costante riformularsi di un’immagine che diventa sempre più futuro e sempre meno passato – con conseguente impossibilità d’abbracciare il tutto – sembra avere molto a che fare con la volontà di Kapoor di mantere il “mistero” di un’opera che non può essere vista nella sua interezza (un frammento di spazio che muta incessantemente al passaggio dello spettatore, mostrandosi in nuove forme e contemporaneamente nascondendone altre, proprio come le strade di Andrò a ritroso della nostra corsa). Tuttavia mi pare abbia più senso che questa serie di collegamenti venga suggerita piuttosto che trattata nell’articolo.
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