Andrej Zvjagincev, The banishment, 2007, 157′.
Questo articolo nasce dalla volontà di soffermarsi su un quesito riportato prepotentemente alla luce da The banishment del quale, in un certo senso, si è già scritto. Il riferimento è all’articolo su Loveless (2017, 127′) e a quell’ossessione formale di Andrej Zvjagincev sfociata in vera e propria ridondanza (e nella triste e sgraziata chiusura del suo ultimo film). Quella sua insistenza su un elemento, quel suo concentrarsi su qualcosa a tal punto da costruire un intero film sulla base dell’accumulo di formule e varianti di una stessa “frase” (se si volesse parlare in termini di “racconto” cinematografico) ha portato Loveless ad essere – riprendendo le parole di quello scritto – «così eloquente […], così fastidiosamente cristallino da essere pressante».
Allo stesso modo The banishment è permeato da una simile sensazione ovvero quella di essere davanti ad un autore intento a mostrare la struttura del suo lavoro a discapito del lavoro stesso (con risvolti assolutamente non meta-cinematografici o comunque atti a una riflessione sulla natura del mezzo, s’intende). Ne viene fuori un film che «sembra essere più una dissertazione cinematografica organizzata per mostrare l’apprezzamento di Zvjagincev per il medium piuttosto che un pezzo originale di cinema»1.
Non basta dunque la rigorosa gestione della messa in scena, il perfezionismo estremo del regista nell’inscrivere i suoi personaggi soli e silenziosi in gabbie formate da cornici, specchi, finestre, porte e qualunque altro elemento a forma di griglia/scatola visiva. Né basta la freddezza e l’essenzialità dello sviluppo narrativo (tra momenti che portano lo spettatore a ricordare Tarkovskij, Bergman, Bresson o Antonioni). Non sono queste le caratteristiche che disturbano la visione del film, né tantomeno lo sono le soluzioni adottate dal regista per creare un ambiente, un umore, prima su tutte la scelta di non guardare mai i suoi personaggi frontalmente (alla quale scelta si aggiunge spesso un decentramento molto accentuato del personaggio sulla scena): una rinuncia alla penetrazione psicologica che, unita alle gabbie di cui si accennava prima, genera un senso di distanza tale da essere paradossalmente molto potente a livello empatico (sono – ad esempio – le rivelazioni dette senza alcun pathos ad essere le più intense, oppure i lunghi silenzi nel mezzo di un dialogo e più in generale ogni emozione/reazione strozzata o contenuta).
Ciò che allontana il regista dai maestri ai quali si ispira – almeno così sembra – e dai quali trae linfa vitale per la sua pellicola è l’insistente utilizzo di simboli (in questo caso di carattere religioso) ai quali viene affidato un ruolo trainante e di importanza fin troppo rilevante da consentire al resto dell’opera di esprimersi in maniera bilanciata e totalmente “libera”.
C’è uno “scontro” nel film tra l’invadenza univoca del simbolo e l’intrigante nebulosità di un’opera più aperta di quanto non lo sia, ad esempio, Loveless. L’ossessione “accademica” del regista, dunque, viene fuori in maniera piuttosto fastidiosa, tra greggi di pecore guidate da pastori, accesissimi rossi e blu delle vesti della protagonista/Madonna (proprio come nei dipinti di Raffaello o dei primi manieristi come Pontormo o Rosso Fiorentino), mietitrici nei campi, plongèe “divine”, un puzzle della Annunciazione di Leonardo o un segnalibro con la Cacciata dal paradiso di Masaccio, una lettura di un frammento della prima lettera ai Corinzi, la musica di Arvo Pärt, suoni di colombe in volo, medaglioni con rappresentazioni di Adamo ed Eva e chi più ne ha più ne metta.
Elementi iconografici di questo genere non ammettono interpretazioni: essi sono una scatola solidissima di significati cristallizzati nel tempo e fungono da didascalia univoca all’opera nella quale inseriti qualora venga data loro una posizione di primo piano (o di unici appigli interpretativi). Certo, tali componenti erano essenziali in alcune epoche (XV/XVI sec. ad esempio) dominate dalla “presenza” di una divinità e della sua parola universale; era importante, dunque, che il messaggio trasmesso da alcune opere fosse preciso e inconfutabile, leggibile dalle classi più colte e destinato a luoghi predisposti alla predicazione.
In un’opera del 2007 l’utilizzo di queste soluzioni espressive è a dir poco anacronistico e grossolano. Beninteso, non è il simbolo in sé ad esserlo quanto il suo l’utilizzo e – ancora una volta – l’importanza assunta all’interno dell’opera: non c’è dialogo tra lo spettatore e l’opera se quest’ultima impone delle precise letture per paura di non essere accessibile o, ancor peggio, per la volontà di essere pedagogica.
Leonardo da Vinci, Annunciazione, 1472 circa, 90 x 222 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi. Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, 1424-25, affresco, 214 x 88 cm, Firenze, Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine.
Dopo la visione di The banishment, però, c’è qualcosa che resta che si distanzia dalla sensazione di costrizione data da Loveless. Lo sviluppo dell’opera è, in un certo senso, tendente all’infinito: in conclusione pare che Zvjagincev abbia voluto accumulare simboli su simboli per creare un unico macro-elemento iconografico (l’Annunciazione) il quale non “risolve” il film né da lui una direzione precisa e univoca. In questo senso il suo lavoro è particolarmente apprezzabile nella misura in cui si ha modo di valutare in che modo un’iconografia antica possa essere utilizzata nella nostra epoca dandole un valore puramente narrativo e non interpretativo (nell’accezione di cui si è discusso sopra).
Il fatto che avvenga questa Annunciazione all’interno del film non è un pretesto per mandare un messaggio specifico (il quale spicca tra altri pur non sembrando l’unico accettabile) ma per creare un’immagine, il dipinto di un gruppo di esseri umani alle prese con delle scelte: uno di loro, in particolare, in bilico tra la vendetta e il perdono, un sentimento rabbioso e una morale imposta da una serie di paletti sociali propri del suo contesto storico. L’Annunciazione è il momento culminante di un’opera che tenta di trattare grandi temi, terreni o divini che siano: questo evento è un simbolo che non si fa portatore dell’Idea ma resta snodo puramente narrativo in un film che elimina gradualmente tale componente fino a raggiungere l’essenzialità di una sola iconica immagine.
Tutto non cancella assolutamente l’insistenza visiva del regista e la sua pedanteria, né i suoi tentativi – spesso non troppo riusciti – di richiamare a sé i suoi grandi ispiratori. The banishment rimane un film ossessivo e ossessionato ma lascia dietro di sé la scia di una domanda fondamentale: in che misura è ancora lecito – ed efficace – utilizzare un simbolo antico e iconograficamente molto specifico in un’opera d’arte contemporanea?
Bibliografia
1 «The twist is well executed and the acting’s exemplary (Lavronenko won Best Actor at Cannes), but it ladles on the heavy religious symbolism and overstuffs the references to the Old Masters and arthouse heavyweights like Bergman and Bresson. It feels more like a ciné dissertation designed to showcase Zvjagincev ‘s appreciation of the medium than an original piece of cinema» in https://www.empireonline.com/movies/reviews/banishment-review/
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