Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu), 2019, 121′.
Affezione e rappresentazione
«È così che mi vedi?». Una manciata di parole dà la chiave per entrare nel discorso di Céline Sciamma sulla natura del ritratto, del soggetto osservante e di quello osservato (anch’esso soggetto e non oggetto, si noti bene), dell’idea della musa, della creazione scaturita dalla memoria piuttosto che dalla presenza. La stessa memoria che Orfeo porta con sé dopo aver perso la sua amata Euridice.
Ed è nell’alternanza della forma narrativa e meta-cinematografica che si dipana l’articolato Ritratto della giovane in fiamme il quale nella sua faretra possiede delle frecce particolarmente appuntite, sapientemente scoccate nei modi e tempi giusti e soprattutto con notevole precisione.
Che la presenza di figure femminili di spicco nel mondo della pittura di qualche secolo fa (fine del XVIII, in questo caso) fosse piuttosto esigua (la quale presenza è riferita alla scarsa attenzione concessa dalla storia alle poche artiste rilevanti) è un dato di fatto e certo un elemento ben presente alla regista, forte di una consapevolezza che non la porta a rivedere la storia secondo criteri propri della nostra epoca ma a contestualizzare le chiare differenze di genere dei suoi personaggi nei confronti di un mondo “al maschile”1.
Così Marianne (la pittrice) non può che “limitarsi” al ritratto, inferiore alla pittura di storia considerata il massimo grado dell’arte al tempo. Certo, lei non conosce l’anatomia quanto un pittore (non essendo ammesse le donne alle lezioni sul nudo) eppure conosce bene i volti: lo sguardo è l’elemento chiave di Ritratto della giovane in fiamme, quello che registra i tratti visibili e invisibili e li conserva nella memoria. Il primo ritratto di Héloïse, infatti, è prodotto esclusivamente facendo appello a quanto – di nascosto – la pittrice è riuscita a cogliere del volto della donna: un ritratto frontale, freddo, incapace di cogliere quanto il volto abbia da dire. Un mero esercizio tecnico di verosimiglianza (cosa tutto sommato accettabile nella misura in cui tale ritratto sia commissionato al solo fine di essere spedito ad un uomo che, eventualmente, Héloïse dovrà sposare) del quale non c’è nulla di cui essere fieri: occhi che non parlano e un’immagine che non è affezione2 ma semplice rappresentazione.
Il volto (in)conoscibile
Il primo ritratto di Héloïse viene storpiato da una furiosa Marianne resasi conto di aver fallito. In cosa, di preciso?
La genesi del dipinto è legata ad immagini fugaci rubate dalla pittrice incaricata di ritrarre di nascosto il suo soggetto, facendo quindi appello esclusivamente alla memoria di quei brevi istanti colti nelle loro passeggiate pomeridiane. Una memoria puramente fotografica ancora, legata ad un’immagine del modello fatta di semplici forme; il ritratto, infatti, risulta essere un formale insieme di «regole, convenzioni, idee», secondo le parole della stessa Marianne.
È chiaro quanto sia del tutto irrilevante la somiglianza fisiognomica per la pittrice in balìa di un sentimento crescente nei confronti della sua modella; la sua abilità tecnica non serve più un proposito meramente funzionale ma diventa ambizione alla conoscenza dell’animo della persona ritratta e non a caso si utilizza il termine “persona”, derivante dal latino col significato di “maschera”: essa dunque «allude all’atto linguistico che […] veicolava: la maschera serviva a far “risuonare” (per-sonare) la voce, a mo’ di megafono»3.
Ha inizio così un percorso di conoscenza che si sviluppa sul doppio binario personale-artistico: quanto più l’intimità delle due donne si fa intensa tanto più il soggetto del ritratto inizia ad assumere una “forma visibile” (ad esempio viene posta molta attenzione nei confronti del sorriso di Héloïse). Il ritratto, dunque, smette progressivamente di essere un contenitore di convenzioni socio-economiche (un documento, una lettera di presentazione, insomma) e si trasforma nello spazio che accoglie l’anima – non a caso ora il viso della modella è di tre quarti, una posa di certo più espressiva che riesce ad attualizzare maggiormente la qualità delle emozioni cercate e percepite dall’artista e, chiaramente, emanate dal soggetto.
È fondamentale considerare l’importanza dello sguardo nel processo di rappresentazione della persona. Ancora una domanda da parte della regista nei confronti del suo film e del suo spettatore: lo sguardo di chi?
Ebbene un’altra freccia nella faretra di Ritratto della giovane in fiamme: c’è un ribaltamento e poi un annullamento dell’idea del rapporto gerarchico tra pittore-modello e artista-musa nonché del rapporto tra spettatore-film. Così come Marianne-pittrice guarda Héloïse-modella quest’ultima guarda la prima. Ancora: la prima dimostra di conoscere le idiosincrasie della seconda e la seconda ribatte dimostrando di conoscere quelle della prima. In relazione all’idea di percorso conoscitivo/sentimentale delle due diventa chiara la necessità che ognuna delle due guardi dentro l’altra al fine di poter produrre quel ritratto4.
L’oggetto dipinto diventa inevitabilmente soggetto osservante, e il ritratto perviene a quello che Jean-Luc Nancy chiama “sguardo interiore”, «che permette al soggetto di essere descritto e percepito come soggetto osservante […]. È grazie allo sguardo che il ritratto smette di essere un oggetto e ottiene un volto autentico con cui ci mettiamo in contatto […] Osservare e guardare sono due azioni diverse: si presuppone infatti che chi osserva abbia consapevolezza di sé, per questo tra soggetto e osservatore può esserci uno scambio di sguardi diretto o indiretto. […] Ecco che tra la persona del ritratto e quella davanti al ritratto nasce un’affinità profonda che supera le differenze fisionomiche»5.
Se è vero che tale affinità nasce tra osservatore e soggetto ritratto, è altrettanto vera la necessità di un contatto analogo se non più intenso tra pittore e modello, requisito (secondo Sciamma) necessario all’impressione dell’intensità espressiva sulla tela, quasi come se il dipinto fosse fatto di consapevolezza e non di semplice abilità tecnica. Si può citare, a tal proposito, un breve scambio di battute che che chiarifica la lucidità del sentimento amoroso che lega le due donne:
– Mi hai sognata?
– No, ti ho pensata.
L’annullamento della gerarchia pittrice-modella si risolve compiutamente nell’autoritratto donato da Marianne ad Héloïse: l’artista diventa di colpo modella di sé stessa. Un cambio di posizione che intensifica inoltre il rapporto sentimentale tra le due (la pittrice si specchia nel sesso dell’altra per ritrarsi). Tale capovolgimento è accompagnato anche da quello della gerarchia padrone-servo: dal momento in cui la madre di Héloïse (la committente del dipinto) parte per un po’ di tempo da casa il rapporto tra le 3 donne protagoniste (in aggiunta alle due di cui si è già parlato vi è Sophie, una serva) diventa quello di tre persone di pari livello. A tal proposito si ribadisce che Céline Sciamma non modula la storia a suo piacimento: Sophie rimane una serva che prepara i pasti e aiuta la sua signora nelle comuni mansioni; ciò che viene a galla però è il rapporto umano paritario che viene a formarsi nonostante le distinzioni sociali proprie di quel periodo storico. Allo stesso modo non è negato il sistema patriarcale della fine del XVIII secolo: semplicemente l’autrice opera delle scelte che non mettono in contrapposizione due micro/macro-cosmi ma concentra la sua attenzione sull’esaltazione di quel micro/macro-cosmo che è di suo interesse6.
Infine il rapporto spettatore-film corre parallelo all’evoluzione da ritratto-oggetto a ritratto-soggetto: così come Marianne cambia la percezione che ha di Héloïse (con conseguenze sulla sua rappresentazione pittorica) lo spettatore inizia a scorgere qualcosa dietro la dura scorza di questo personaggio glaciale e a tratti anche nichilista (a causa di una grave perdita subita)7. È solo grazie a ciò che il volto della modella ritratta assume una sua intensità agli occhi del pubblico (la macchina da presa della regista si fa carico di questo complesso rapporto di sguardi con una precisione notevole)8.
Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-10, olio su tela, 110×171,5 cm, Alte Nationalgalerie, BErlino.
L’arte di Helene Delmaire
I dipinti di Marianne nel film sono stati eseguiti da Helene Delmaire, una pittrice la cui arte presenta tratti comuni al tema fondante di Ritratto della giovane in fiamme. La sua serie di dipinti eyeless (e non solo) è dotata di una certa vibrazione e leggerezza data da pennellate sciolte, liquide, che non si preoccupano neppure di lasciar intravedere il supporto del quadro. Allo stesso tempo però questa leggerezza è interrotta dallo sfregio (non violento come quello di un pittore come Bacon e certamente dalle implicazioni non così fondamentali per l’estetica del volto e del ritratto) nei confronti dei volti e in particolare degli occhi, “lo specchio dell’anima”, appunto. Delle pastose e dissonanti pennellate coprono ciò al quale ci si può aggrappare per cogliere ciò che c’è dietro al volto, si pongono davanti a questo specchio e lasciano il volto in balìa dello sguardo dello spettatore, spaesato quanto il soggetto ritratto (da notare anche l’assenza di sfondi nei suoi quadri – non c’è altro oltre ad un volto al quale per di più vengono tolti i suoi principali strumenti di espressione).
Da sottolineare, infine, la capacità di Delmaire di conferire intensità ai suoi volti handicappati attraverso gli elementi restanti sui quali si concede di lavorare: ne consegue che i suoi dipinti sono dotati di una dolce malinconia e di sottili sentimenti appena suggeriti da una piccola piega delle labbra. Proprio come accade col secondo ritratto di Héloïse la quale peculiarità risiede in quel sorriso accennato proprio della modella e della stessa Adèle Haenel.
La memoria e il volto visibile
– «Si stavano avvicinando alla superficie, prossimi all’entrata quando… temendo di perdere Euridice, e impaziente di vederla la sua amata sposa, si girò e fu immediatamente riportata indietro. Lei cercava di abbracciarlo e desiderava stringerlo a sé. Le sue povere mani presero la vuota aria. Morendo per la seconda volta, ella non si lamentó. La sua unica colpa fu amarla».
– Ma è orribile. Povera donna. Perchè si è girato? Era stato avvisato di non farlo, mai, per nessun motivo.
– Aveva dei motivi.
– Dite?
– Leggi di nuovo.
– «Si stavano avvicinando alla superficie, prossimi all’entrata, quando, temendo di perdere Euridice e impaziente di vederla, la sua amata sposa, si girò».
– No, non può guardarla per paura di perderla. Questo non è un motivo. Gli era stato detto di non farlo.
– Era molto innamorato. Non ha saputo resistere.
– Credo che Sophie abbia ragione.
– Poteva resistere. I suoi motivi non erano seri.
– Magari fa una scelta.
– Che scelta?
– Lui sceglie il ricordo di lei, per questo si gira. Non fa la scelta dell’amante ma del poeta.
Orfeo è l’Artista e il Poeta prima di essere l’amante. Egli sceglie l’assenza e la memoria, sceglie un’immagine eterea. La memoria è, d’altronde, condizione ideale dell’artista: essa sfuma i contorni e modifica le immagini. L’artista se ne serve per creare opere imperscrutabili (essendo queste immagini tali anche per lui) e universali, fatte di ideali e non di materia deperibile. Lascia, infine, che la sua amata bruci eternamente nella trama della tela, riprendendo ancora una volta una fuggevole visione offertagli da una modella consapevole di regalarle quanto basta per creare un’opera.
Scrive Béla Balázs che col cinema l’uomo diventa «visibile»9, che il suo corpo si fa diretto portatore della sua “aura”. Chiaramente il paesaggio del volto è luogo privilegiato di questa espressione, principale veicolo dell’emozione.
Infine il macro-cosmo di Ritratto della giovane in fiamme inghiottisce indifferente il micro-cosmo delle tre donne e le riporta alle condizioni stabilite dalla società tardo-settecentesca. Héloïse va in sposa all’uomo al quale era promessa, Marianne torna al suo mestiere e alla sua arte, Sophie alle sue mansioni10. Céline Sciamma comprime queste tre donne nel volto – ora visibile – di Héloïse. Certo il primo pensiero che salta alla mente è al volto di Yang Kuei-mei nel finale di Vive L’Amour (1994, 118′) di Tsai Ming-liang il quale ha in un certo senso posto un punto di non ritorno nella messa in scena del “volto intensivo”11, rispetto al quale il film di Sciamma non riesce neanche lontanamente a reggere il confronto: sta di fatto che l’impianto della sequenza, aiutato da quel percorso narrativo-conoscitivo al quale lo spettatore è sottoposto insieme a Marianne, riesce a sugellare un’idea, un’affezione che colpisce come una freccia d’Eros.
Bibliografia
1 Si vedano a tal proposito Rossella Ciciarelli, Senza arte né parte: perché le donne artiste sono dimenticate? e Ritratto della giovane in fiamme: lo sguardo, la donna e l’arte.
2 Sul concetto di immagine-affezione si veda Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Torino 2016.
3 Hans Belting, Facce: una storia del volto, Roma 2014, p. 70.
4 «Non c’è nessuna musa […] Vediamo come la storia dell’arte riduca la collaborazione tra gli artisti e i loro compagni: prima, una musa era questa feticizzata, silenziosa, bellissima donna seduta nella stanza, mentre noi ora sappiamo che Dora Maar, la “musa” di Picasso, era una grandissima fotografa surrealista. E Grabrièle Buffet-Picabia, la compagna di Picabia, era fortemente coinvolta nell’evoluzione di lui» in Amy Taubin, Interview Excerpt: Céline Sciamma.
5 Hans Belting, Facce: una storia del volto, Roma 2014, p. 154.
6 «Sono due donne che si amano e che insieme costruiscono un immaginario amoroso accogliente e aperto. Non è certo un film sulle violenze e i soprusi subiti dalle donne nei secoli, ecco perché non ci sono uomini» in Francesca Fiorentino, Céline Sciamma: «Ritratto Della Giovane in Fiamme? Un film femminile e femminista».
7 «Inizialmente, tu guardi Héloïse e Marianne che guarda Héloïse. Ma, ad un certo punto, riguarda te (pubblico) che guardi Adèle recitare. Riguarda il cinema. Lascia spazio per te» in Marshall Shaffer, Interview: Céline Sciamma on Redefining the Muse with Portrait of a Lady on Fire.
8 «Quando ho scritto la parte per Adèle, lei era la modella. Quando ho parlato del film, e non tanto perché sono molto riservata, le persone mi hanno chiesto, “Quindi, Adèle interpreterà la pittrice?” Ed io ho detto, “No, Adèle interpreterà la modella!” Le persone erano tipo, “Perché? Lei dovrebbe interpretare la pittrice.” Ed io ero tipo, “Oh, quindi trovate che la modella sia troppo limitante per lei? Trovate che questa non sia la dinamica di potere che le spetta. Lei dovrebbe intepretare la pittrice.” Lei ed io abbiamo riso e pensato, “Certo, [Adèle] dovrebbe essere la modella perché io sono l’attrice.” Quindi, cosa stanno dicendo? Che è troppo riduttiva per lei? Ciò è stato anche molto proficuo, l’idea oggi che lei non dovrebbe essere in quella posizione. Sarebbe una posizione debole. E non lo è» in Ibidem.
9 Béla Balázs, L’uomo visibile, Torino 2008.
10 «Questo film non si chiede se una simile relazione sarebbe possibile – non lo è, e loro lo sanno. Volevo però mostrare quanto luminosa e soddisfacente sarebbe potuta essere. Sappiamo tutti cosa pensa la società – non ho bisogno di ripeterlo» in Marta Bałaga, Céline Sciamma • Director of Portrait of a Lady on Fire.
11 Si rimanda nuovamente a Gilles Deleuze, L’immagine-movimento.
Ritratto della giovane in fiamme – Ricciotto 400
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