«La nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo»

Mattia Biondi, Memory song, 2019, 3′


Diceva Chris Marker in La jetée (1962, 28′): «Nulla distingue i ricordi dagli altri momenti. Solo col tempo diventano memorabili dalle cicatrici che lasciano». E se questi momenti diventassero ricordi anche se non li si possiede? Se questi momenti non potessero non essere uguali a qualunque altro momento? Ci si può appropriare di un momento altrui (nel momento stesso della creazione artistica di fatto l’appropriazione viene contraddetta, si trasforma in condivisione, apertura) e trasformarlo in un ricordo proprio?

Le note sono uguali per tutti i compositori, così come gli accordi (con le dovute variazioni) o le scale musicali o le progressioni armoniche: così Mattia Biondi va nella cava del cinema e riporta alla luce momenti, dei frammenti che Jonas Mekas chiamava glimpses of beauty, e li modula secondo un proprio ritmo poetico e personale. Lo stesso Mekas che ricordava, nei suoi film, che «Il mio mondo non è così diverso da quello di chiunque altro»1; i suoi brevi attimi di bellezza sono tesi verso l’esterno, verso chiunque guardi i suoi film, proprio in virtù del salto qualitativo dovuto all’impressione sulla pellicola: la bellezza diventa collettiva, è oggettivata nell’arte.

Bruciata la materia del ricordo ma non il ricordo.
Il ricordo impera ugualmente. È lui
che oltre la storia e oltre la finita reminiscenza
lungo tutta la lunga mattinata estiva osserva
la piazza prima in ombra inondata dalla trasparenza
tramutarsi in un vaso di fulgore offuscato dall’accecamento
con nient’altro tra ripa e ripa di pietra e marmo che la sua forza.
Lui solo e da sotto le tegole una buba
di colombi che quasi di troppa beatitudine la scolma.
Ricordo senza limiti, ricordo senza corpi né ombre.

Mario Luzi

D’altronde il processo di Biondi nei confronti di questi momenti prelevati e composti in forma nuova è opposto a quello di Mekas: egli prende delle immagini da altrove, già collettive, e le fa proprie, le tramuta in un proprio mondo che è fatto da un gioco di libere associazioni, quasi come se stesse cercando di creare un ricordo, una visione perduta e ritrovata.
Scrive Marco Bertozzi che «l’intera storia del cinema» è «un immenso giacimento per scavi della visione migrante»2, e non sembra così lontana da quest’idea l’operazione di Memory Song. L’occhio del regista va alla ricerca di alcune immagini alle quali toglie qualunque significato (per il fatto stesso di averle estrapolate dal proprio contesto) per infonderle col proprio sentimento; un cinema che non è “fabbrica dei sogni” ma “fabbrica di ricordi”. Ancora una volta: a chi appartengono questi ricordi?

Proust scrive pressappoco questo, che la nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo, nell’odore della prima esplosione dell’autunno eccetera. Aspetti della natura che rassicurano, nel loro ripetersi, sulla continuità nel tempo dell’individuo, sulla sua permanenza. A me – e forse a chiunque della mia epoca –, che ho ricordi legati a un tormentone estivo, a una cintura alla moda, a cose e oggetti destinati a scomparire, la memoria non fornisce alcune prova della mia permanenza o della mia identità. Mi fa sentire e mi conferma la mia frammentazione e la mia storicità. [I grassetti sono miei]

Annie Ernaux, La vergogna.

Certamente questi ricordi non sono di nessuno e in virtù di questo sono di tutti, immagini al di fuori di ogni spettatore e che in quanto tali si concedono a chiunque, non nella stessa maniera di un’opera di finzione, si noti: essa è di per sé “aperta”, è sempre e comunque di nessuno; essa vive a priori al di fuori del proprio creatore. Quelli di Memory song, invece, sono momenti di finzione reincarnati in immagini astratte, non così differenti dalle immagini astratte del cinema di Mekas (nelle quali il sorriso sua figlia diventa il sorriso della figlia di tutti e la bellezza dei campi della sua Lituania è bellezza dei campi del luogo natìo di ogni spettatore).

Così un dito davanti all’obiettivo alza il sipario all’inizio e lo cala alla fine: una finzione viene proposta allo spettatore, uno spettacolo che imita la realtà (o meglio, la interpreta). Questa canzone muta della vita (il film è senz’audio) è uno spazio vuoto dopotutto, è un contenitore da riempire con le proprie note e i propri momenti, suggeriti da questa memoria creata ex novo dal poeta il quale offre al fruitore il suo occhio, nella speranza di fornire lui qualche prova in più della sua permanenza.

Bibliografia


1 Jonas Mekas, Outtakes from the life of a happy man, 2012, 68′ oppure Jonas Mekas, As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty, 2000, 288′.
2 Marco Bertozzi, Recycled cinema: Immagini perdute, visioni ritrovate, Venezia 2013.

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