Nijuman no borei

Jean-Gabriel Périot, Nijuman no borei, 2007, 10′


We knew the world would not be the same. A few people laughed, a few people cried, most people were silent. I remembered the line from the Hindu scripture, the Bhagavadgītā: Vishnu is trying to persuade the Prince that he should do his duty and to impress him takes on his multi-armed form and says, «I am become Death, the destroyer of worlds.» I suppose we all thought that one way or another.1

Julius Robert Oppenheimer 

È certa l’inadeguatezza di un’opera come quella di Jean-Gabriel Périot – come lo sono state quelle di Alain Resnais, Krzysztof Penderecki, e di molti altri prima e dopo di lui – nei confronti di un evento così importante per la storia dell’umanità come quello di Hiroshima e Nagasaki del 1945. D’altronde non è un’adeguatezza che si cerca quanto la messa in forma di un documento che non soltanto documenti ma che si faccia carico di una prospettiva specifica che permetta di percorrere una strada non battuta; di dividere, insomma, un flusso d’acqua troppo intenso al fine di alleggerirne la pressione. Ogni tentativo di eliminare dell’acqua è, appunto, inadeguato, insensato. Si cerca dunque di farsi carico di una parte più o meno consistente e di portarla sul proprio corso, nulla di più.

Al centro di Nijuman no borei c’è un palazzo, il Memoriale della pace di Hiroshima. Una centralità che è soprattutto d’immagine: scavando nella memoria di quel luogo il regista ha composto un film fatto di sole fotografie aventi questo unico soggetto, prima e dopo la bomba.
Esso non è solo un punto fermo in uno spazio architettonicamente mutevole e mutato fortemente nel corso del tempo; è posto quale punto fermo sullo schermo secondo un procedimento di raccordi “puri” rispondenti ad una semplice regola visiva che si fa monito: il Genbaku Dome rimane al centro dell’inquadratura al di là di tutto, al di là della messa a fuoco delle fotografie recuperate da Périot, del loro formato, della sua posizione all’interno dei singoli scatti, dell’angolazione (è cura infine del regista creare un dialogo visivo coerente e fluido). È in questo processo che assume importanza lo sfondo nero, come uno spazio astratto e privo di coordinate che possano in qualche modo determinare un limite al posizionamento delle fotografie. Non c’è, in questo senso, un profilmico, non c’è alcun tavolo né parete a fare da supporto, il nero scompare solo in seguito all’accumulo di istantanee, una massa di ricordi che soffoca lo schermo con la sua presenza.

Anch’io, come te, ho provato a lottare con tutte le mie forze contro l’oblio. Come te, ho dimenticato. Come te, ho desiderato avere una memoria inconsolabile, una memoria di ombre e di pietra. Ho lottato da sola, con tutte le mie forze, contro l’orrore di non poter più capire il perché del ricordo. Come te, ho dimenticato… Perché negare l’evidente necessità della memoria? Acoltami. Io lo so. Tutto ciò si ripeterà. Duecentomila morti. Ottantamila feriti. In nove secondi. Queste cifre sono ufficiali. Tutto ciò si ripeterà. Ci saranno diecimila gradi sulla terra. Diecimila soli. L’asfalto brucerà. Un disordine profondo regnerà. Un’intera città sarà sollevata da terra e ricadrà in cenere… Nuove vegetazioni sorgono dalle sabbie… Quattro studenti aspettano insieme una morte fraterna e leggendaria. I sette bracci della foce a delta del fiume Ota si svuotano e si riempiono alla solita ora, più esattamente, alle solite ore, di un’acqua fresca e pescosa, grigia o blu secondo l’ora o la stagione. La gente non guarderà più, lungo le rive fangose, il risalire lento della marea nei sette bracci della foce a delta del fiume Ota.

Alain Resnais, Hiroshima mon amour, 1959, 90′

Sembra addirittura che sia lo storico palazzo a guardare il suo intorno e non il contrario: immobile sta al centro di uno spazio dal 1914, devastato quel 6 agosto del 1945 e ricostruito-rimodulato gradualmente fino al 2006. Se da una parte ogni rapporto tra un corpo e l’ambiente è di reciproca interferenza, dall’altra sembra che in Nijuman no borei ci sia una resistenza estrema da parte del Genbaku Dome. Testimone ostinato e irremovibile dell’epoca certamente più buia del Giappone e del momento di svolta forse più importante per la storia dell’umanità esso rimane in piedi nel tempo nonostante tutto. La ricostruzione di Périot non fa altro che fissare con quanti più mattoni-foto e cemento-film questa archimemoria, laddove il prefisso archi- non fa riferimento solo alla sua natura architettonica quanto ad una accezione di esistenza in principio e allo stesso tempo principale rispetto ad un intorno. «A questo incrocio tra architettura e memoria riceviamo un importante lezione sul lascito.»2

Un punto fisso nel mare di momenti fissato dalle fotografie, dunque, un corpo che ha smesso (o meglio, si rifiuta) di ridefinire lo spazio attorno a sé e che guarda una città ricrescere gradualmente nel rispetto3 di un ricordo che strenuamente sopravvive e che, grazie ad opere come questa, guadagna una strada in più da precorrere per togliere, ancora una volta, un po’ di pressione dal fiume della Storia; per dare, ancora un volta, un po’ di spazio in più a quel Giappone e ai suoi 200.000 fantasmi.

Bibliografia

1 https://www.youtube.com/watch?v=lb13ynu3Iac
2 Struan Kennedy, ‘Confronting Histories’: A Jean-Gabriel Périot Retrospective, 2017.
3 Sebbene il contraddittorio Giappone abbia affrontato la questione in due maniere diametralmente opposte: «Da un lato, il nucleare come Alterità, come arma pericolosa, devastante, cattiva, fonte di contaminazione e distruzione; ma un’alterità che è stata allontanata ed esorcizzata, proiettandola verso il passato (la Seconda guerra mondiale) e l’esterno, verso un’origine straniera (soprattutto gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica). Dall’altro, il nucleare come Identià, come energia pacifica, sicura, buona, direttamente proiettata sul Giappone presente a esprimere la speranza per un futuro luminoso, tecnologico e prosperoso.» in Toshio Miyake, Da Hiroshima/Nagasaki a Fukushima: cinema, manga e anime nel Giappone postbellico, «Cinergie», 2, novembre 2012.


Elena Marcheschi, Videoestetiche dell’emergenza. L’immagine della crisi nella sperimentazione audiovisiva, Torino 2015.

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