Rocio Mesa, Tobacco Barns Light Studies, 2020, 2′
L’edizione 2020 del Festival des cinémas différents et expérimentaux de Paris organizzata dal Collectif Jeune Cinéma ha per tema i capricci del linguaggio, i suoi imprevisti, la «riappropriazione del linguaggio» da parte di chi il linguaggio lo stuzzica, lo smembra e lo ricompone secondo logiche illogiche. La competizione della 22esima edizione (7-18 ottobre) tenta dunque di proporre un’orchestra di voci da quella comunità emarginata del cinema che ha ancora qualcosa da dire, in dialetti e cacoletti (dialectes, cacolectes).
La luce vibra e anima numerosi fantasmi globulari all’interno di isolati capannoni usati per essiccare il tabacco. Oramai abbandonati sono diventati stanze per mostriciattoli di luce e teste di pietra, pelli di legno e impronte di polvere, architetture/sculture fantasma.
L’interno delle costruzioni è, per Rocio Mesa, spazio in cui far muovere i nuovi – nonostante siano sempre stati lì – inquilini luminescenti al solo tremare dell’inquadratura e dei raggi che si infilano tra le assi della costruzione malandata: questa luce, in combutta con l’ombra dell’ambiente chiuso, dipinge reticoli astratti e fantasie cangianti, figure e crepe, esseri che vengono fuori dall’assenza. È solo con la presenza dell’assenza, infatti, che è concesso loro riprendersi le pareti, i soffitti e i pavimenti. Ri-prendersi, perché in fondo sono sempre stati lì, in forme certamente diverse o invisibili a seconda della reazione delle presenze fisiche ai raggi solari; eppure intoccabili, perennemente mutevoli.
Questi luoghi inquietanti portano con sé la perdita della funzione cui erano destinati: adesso sono solo delle forme, matrici per la luce: ecco allora il fascino delle immagini di Mesa, la loro quasi incomprensibilità, come se ci si trovasse in un luogo estremamente grande e allo stesso estremamente piccolo a seconda della quantità di luce che riesce a passare tra le fessure della costruzione. Lo spazio che crea è dilatabile all’infinito, casetta e palazzo insieme, casa e cripta.
È importante che ci sia solo la macchina da presa lì dentro, corpo incorporeo che non intralcia il percorso della luce e si limita ad osservarne il cadere su un ambiente che è fatto di trame e superfici (texture) che sono sia palcoscenico che attori. Occhi di cemento sbarrati, teste quadrate, impronte circolari ovunque: sono presenze vere, queste, perché se la vita è vibrazione è chiaro che si è in presenza di vita. O forse, in questo caso, la vibrazione è vita, e così quel vibrare della luce sulle superfici del fatiscente capannone mette in moto gli occhi, le teste, le impronte. Sono fantasmi veri, infine, i mazzi di tabacco secco appesi come dannati impiccati, oppure uomini che aspettano non si sa cosa.
È solo luce.
Béla Tarr, Kárhozat, 1988, 120′.
Rispondi