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Not once in prior life did I dare dream
PAGAN: Autogeny
That from our handsome bodies we’d be free
But now our twisted roots do boldly form
Haecceity – A gender all our own.
Il tempo impresso: Sarò onesto con te: nessun videogioco è mai stato così importante per la mia vita. Il tuo lavoro mi ha aiutato a capire che devo continuare a navigare (e vagare) nel mondo dei videogiochi con la consapevolezza che essi possano essere capaci di avere un impatto sull’anima così come possono fare i dipinti di Leonardo o i film di Tarkovskij, e che impegnarsi in un videogioco non è solo un passatempo per alleviare lo stress. Ho giocato ai tuoi videogiochi con lo stesso approccio che ho avuto leggendo Doctor Faustus o guardando Solaris. Vorrei chiederti questo, cosciente che non è certo qualcosa che possa essere elaborato esaustivamente in uno spazio e in un contesto così piccolo: se tu credi che esistano videogiochi come opere d’arte, come ha fatto il medium a riuscirci? Qual è la sua specificità? Se il cinema è «un mosaico fatto di tempo» e la musica è «ambiguità elevata a sistema» (due definizioni tra infinite altre), cos’è un videogioco – o meglio, un’opera interattiva?
Oleander Garden: Innanzitutto, è incredibilmente gentile da parte tua, quindi grazie – significa molto per me.
Riguardo le caratteristiche essenziali del videogioco, sostanzialmente seguo Cremin nell’idea che sia una sorta di frizione. Una fotografia è un’immagine, e un film è una sequenza di immagini organizzate che si muovono nel tempo (un senso del movimento, un’immagine-movimento, come la chiama Deleuze). Si distingue da una semplice galleria di fotografie perché il soggetto dell’espressione è insito in questo senso del tempo e del movimento, che non si può trovare in nessuna fotografia.
Seguendo questi concetti, un videogioco è una galleria di immagini-movimento disposte sistematicamente. Si distingue da una collezione di film nella misura in cui non si può scegliere liberamente tra le sequenze di immagini, ma si è costretti ad interagire con un sistema organizzato di relazioni che in un certo modo restringono quella che sarebbe altrimenti una totale libertà di scelta. Questo sistema – l’immagine-frizione, come la chiama Cremin – è la materia della produzione/espressione nei videogiochi, e non la si può trovare in nessuna immagine in movimento. La frizione può prendere ogni tipo di forma. I complessi sistemi di statistiche dei GDR certamente sono qualificabili come tali, ma la semplice metafora dello spazio (per esempio: impiegare del tempo per camminare in un mondo di gioco prima che tu possa vedere cosa c’è dall’altra parte) è anche, a modo suo, un tipo di frizione. Perfino la difficoltà inerente all’interagire con un’interfaccia utente (UI), o la complessità nel capire le regole di un certo gioco – queste sono anche forme di frizione.
Le grandi case di produzione di videogiochi spesso tentano di creare giochi “cinematografici”, aspirando all’espressione artistica attraverso filmati, momenti emotivamente artificiosi, dialoghi, narrativa, ecc. Così facendo, ciò che ottengono è l’equivalente (ad esempio) del ridurre il cinema ad una galleria di fotogrammi. I videogiochi sono unici perché possono esprimersi attraverso sistemi di frizione; i videogiochi funzionano come medium artistico, credo, quando sono capaci di produrre qualcosa di significativo con questa frizione.
In principio era il bit
Tra il 2018 e il 2019 Oleander Garden pubblica tre videogiochi, PAGAN: Technopolis, PAGAN: Emporium e PAGAN: Autogeny (ai quali ci si riferirà come alla Trilogia PAGAN). Sarebbe però un grave errore considerare la trilogia come un sistema isolato e chiuso, un percorso da punto A a punto C. L’autrice ha creato attorno alle tre opere una fitta rete virtuale di collegamenti ipertestuali a formare un vero e proprio microcosmo digitale che si muove tra film, musica, poesia, letteratura e brandelli di memorie internettiane su eventi finzionali e non, strappati alla Storia – e alle storie – per andare a far parte della sua visione poetica del mondo. Dal suo sito web, infatti, è possibile apprendere le vicende – inventate – di un pezzo di storia digitale della fine degli anni ’90, attorno ad eventi come la Guerra Civile albanese e all’attività del “protagonista” di questo folclore digitale, XENOS Softworks, un gruppo attorno al quale ruotano le opere di cui si parlerà nell’articolo. Sul sito si possono trovare anche i film che Oleander Garden ha girato, sue fotografie, racconti e – ciò che più interessa in questa sede – una ricostruzione di finti database e notizie su XENOS Softworks e ciò che lo riguarda.
È necessario allora tentare di ricostruire alcune tappe di questa Genesi pagana dell’Apocalisse programmata da Garden prima di arrivare alla Trilogia e agli snodi fondamentali della sua pratica artistica. ﷺ



«PROLOGO E VISIONE INAUGURALE
Beato chi legge»
La sezione II della biblioteca digitale di Oleander Garden, Dead game archive – Plaza 96, è certamente la più importante per il proposito di questo articolo. In essa sono contenuti rimasugli di siti scomparsi grazie ai quali è possibile risalire, a grandi linee, all’attività della casa di sviluppo fittizia XENOS Softworks, questo collettivo d’arte albanese (attivo circa tra il 1993 e il 1997) creatore di pellicole cinematografiche, composizioni musicali e videogiochi. Tra questi, Plaza 96 (1996), un MMO (massively multiplayer online) il quale ultimo server sembra esser stato chiuso nel 1997, in coincidenza con lo scoppio della guerra civile albanese – l’ultimo capitolo della Trilogia dimostrerà però che non è così, che esiste ancora un server e che è proprio quello all’interno del quale il videogiocatore accede all’avvio del gioco. Si evidenzia inoltre che nella pagina d’archivio sull’attività del collettivo solo Your Child Looking West (1994) e Plaza 96 hanno un collegamento che rimanda ad una pagina apposita; non vi sono invece notizie sugli altri lavori elencati. Il primo dei due videogiochi di cui si ha notizia pare essere un videogioco «ambientato nella California del XIX secolo. Il videogiocatore cerca di riunire i resti della leggendaria spada Excalibur. Poche copie – se non nessuna – sono sopravvissute»; del secondo, che dichiaratamente è quello proposto in Autogeny, poco si sa, se non che i giocatori che lo ricordano descrivono «paesaggi bizzarri e incongruenti, che mescolano tecno-utopianesimo con misticismo esoterico. Certe dichiarazioni sono, per loro stessa natura, non verificabili».
Certo è che XENOS Softworks non era un collettivo particolarmente “integrato” (e dunque “apocalittico”): i titoli delle opere parlano chiaro, dai film HUMANOCIDE (1993) ed Elohim Wounded and Weeping (1994) – quest’ultimo indicato, tra l’altro, come «Film pornografico»; così come parlano chiaro le poche informazioni reperibili dagli archivi sul sito di Oleander Garden: «Sono conosciuti [XENOS Softworks] per il loro stile di design ostile all’utente, e per la loro peculiare insistenza sul totale anonimato».
Fuori dalla finzione delle vicende di XENOS Softworks – ma contemporaneamente dentro l’attività artistica di Garden – due film sembrano essere fondamentali per avere un quadro più preciso degli eventi della Trilogia: ISOMORPHISM (May to September 1996) (2017, 7’) e POLYMORPHISM (May to September 1999) (2021, 2’). Il primo, nello specifico, fornisce alcuni preziosi indizi sulla figura protagonista delle opere, Vivian.
Il tempo impresso: Hai mai visto il film Begotten (E. Elias Mehige, 1990)? Mi sembra che, in quel film, si possa vedere qualcosa di “alchemico” all’opera: un “Elohim ferito e piangente” (Elohim wounded and weeping) morire e una figura femminile venir fuori dal suo sangue/materia. Più in generale, qual è il tuo rapporto con il cinema? Ha qualche influenza rilevante nel tuo lavoro?
Oleander Garden: Non ho mai visto quel film, però ora voglio farlo! La pagina Wikipedia cita Antonin Artaud e Nietzsche tra le sue influenze, però; il lavoro di entrambi certamente ha influenzato i miei videogiochi, quindi forse questo spiega l’apparente somiglianza. Più in generale, sì, prendo decisamente spunto dal cinema per gli elementi visivi e temporali dei videogiochi (dai film di Tarkovskij più di tutti, probabilmente).




Vivian
E non è per niente la stessa sessualità: le graminacee, anche quelle che riuniscono i due sessi, sottomettono la sessualità al modello della riproduzione; il rizoma al contrario è una liberazione della sessualità non solamente rispetto alla riproduzione, ma rispetto alla genitalità. Da noi, l’albero si è piantato nei corpi, ha indurito e stratificato anche i sessi. Abbiamo perduto il rizoma o l’erba.1
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani. Capitalismo e Schizofrenia
Il nome Vivian deriva dal latino Vivianus (maschile)/Viviana (femminile), il suo significato letterale è “vivo/in vita”. Si noti che Vivian è il nome dato alla Dama del lago in alcuni racconti del ciclo arturiano (centrale in tutte le opere dell’artista). Cosa più importante di tutte è che il nome inglese Vivian è di genere neutro.
Vivian è il protagonista di ISOMORPHISM (e si suppone anche di POLYMORPHISM, per quanto quest’ultimo sia di durata brevissima e molto più ermetico) e dal film si deduce chiaramente che egli sta attraversando (nel 1996) una transizione di genere (lo testimonia il promemoria sul suo desktop riguardo le medicine da prendere) e più in generale una fase estremamente delicata della sua vita, al limite della tendenza al suicidio. Il suo mondo infatti è racchiuso nella cornice di un desktop, nei microcosmi dei suoi videogiochi e nella compagnia della piccola graffetta tipica dei sistemi operativi Microsoft degli anni ’90 – la quale comunque inizierà ad essere offensiva col passare del tempo.
Vivian è anche la protagonista della Trilogia PAGAN (nonostante venga chiamata per nome solo in Autogeny) ed è possibile osservare il suo percorso attraverso l’incontro con un ideale comune del femminile (Technopolis), un ideale comune del maschile (Emporium) e una terza via, una nuova forma (Autogeny). Ci si tiene molto a sottolineare però che qui non ci si trova davanti ad uno schema hegeliano per il quale l’ultima fase del percorso di Vivian sia da intendersi come una sintesi tra i primi due. Piuttosto un’ecceità, nell’accezione che ne dà Deleuze in Mille Piani: ecceità come opposto di individuo; ecceità come ganglio di un evento rizomatico, un evento prodotto in un preciso momento d’incontro all’interno del rizoma stesso. Dunque Vivian non è una molteplicità imbrigliata in un individuo, sia maschio che femmina, ma uno specifico momento in cui vari punti della molteplicità rizomatica s’incontrano. Vivian è un evento, non un individuo. E così segue la filosofia deleuziana della relazione e non quella hegheliana dell’opposizione. Su un versante più scientifico, poi, il polimorfismo è la presenza di diversi “morfi” all’interno di una stessa specie (diverso colore dei capelli/occhi in un essere umano; maschio e femmina, magari) mentre «Si parla di isomorfismo quando due strutture complesse si possono applicare l’una sull’altra, cioè far corrispondere l’una all’altra, in modo tale che per ogni parte di una delle strutture ci sia una parte corrispondente nell’altra struttura»2, dunque due elementi formalmente diversi che però hanno una stessa funzione sistemica: il Big Ben e un orologio da polso sono formalmente diversi ma entrambi sono sistemi per tenere traccia dello scorrere del tempo – un uomo e una donna sono formalmente diversi ma entrambi sono ______________ (completare a piacere).


Il tempo impresso: Sono stato subito colpito dalla presenza di alcuni dipinti del primo Quattrocento italiano e del movimento dei Preraffaelliti nei tuoi lavori, e ovviamente dalla presenza della Venere di Milo e della testa del David come reliquia in HEXCRAFT: Eventide Sigil3. Ho notato inoltre la presenza della bandiera albanese in HEXCRAFT e in generale l’importanza del popolo albanese nel folklore di PAGAN. Da dove vieni? Sei legata culturalmente all’arte italiana/greca oppure il tuo è un approccio più intellettuale a quelle opere? Mi sembra che la Trilogia PAGAN ruoti attorno – tra le altre cose – al concetto di “bellezza”, in particolare concentrandosi sull’opposizione tra un ideale di bellezza femminile e un ideale di bellezza maschile.
Oleander Garden: Sono canadese, ma la famiglia di mia madre è italiana. La roba albanese è lì perché il periodo della guerra civile funzionava bene per la storia.
Uso un sacco di arte preraffaellita e quattrocentesca principalmente per il modo in cui (credo, almeno) tende verso il sublime irrazionale, opposto, tipo, all’ordinata bellezza kantiana. La roba sulla bellezza femminile credo sia legata a ciò – cioè, il modo in cui la bellezza femminile e i corpi delle donne sono codificati culturalmente come una sorta di tentazione che sovrasta il raziocinio.
Il tempo impresso: Sono d’accordo, mi sembra che ci sia questo curioso paradosso nei dipinti rinascimentali, così altamente razionali e geometrici. In qualche modo riescono ad essere, direi, occulti e misteriosi (penso ad esempio al Cristo deriso di Beato Angelico). Credo che molte opere di pittori come Piero della Francesca, Beato Angelico o Paolo Uccello posseggano questa sorta di strana dicotomia (così i libri di Thomas Mann o la musica di Bach).
Hai messo nella Trilogia PAGAN una grossa quantità di elementi e suggestioni provenienti dagli ambiti più disparati. Il tuo è un lavoro fortemente intellettuale che hai incanalato in questo specifico medium creando qualcosa che è difficile da definire “gioco”. Certo, questo potrebbe essere semplicemente una questione linguistica, eppure fatico molto a chiamare queste opere “giochi”. Personalmente non credo in una relazione diretta tra arte e gioco (sebbene un’opera d’arte possa implicare delle interazioni da parte del fruitore). Un gioco è – in breve, e prendendo a prestito una definizione di Bernard Suits – il tentativo di raggiungere un obiettivo utilizzando solo mezzi consentiti dalle regole; regole che vietano l’uso di mezzi più efficienti a favore di mezzi meno efficienti; regole che sono accettate solo perché rendono possibile tale attività. In PAGAN mi sembra che il “giocatore” (uso le virgolette non a caso) non giochi per il gusto di giocare, non c’è niente di “divertente” in tutto ciò, niente di piacevole (intrattenente). È più come se si stesse osservando un dipinto o un film, enorme e brullo, con la libertà di muoversi nello spazio e interagire con personaggi non giocabili e oggetti. Non mi sono sentito come se stessi giocando, piuttosto come se stessi leggendo un libro “rizomatico” con capitoli o righe non ordinati. La mia relazione con l’opera è stata puramente intellettuale ed emozionale, nessun atto del giocare è stato messo in campo. C’è qualche motivo in particolare per il quale hai deciso di sviluppare un videogioco e non, per esempio, girare un film o dipingere un quadro o scrivere dei brani musicali? Qual è la peculiarità del creare un’opera in questo particolare medium e non in un altro?
Oleander Garden: Non credo di aver mai avuto un’idea per qualcosa e solo dopo aver scelto il medium – tendo a fare il contrario, credo? Cioè, ho creato il primo gioco di PAGAN perché stavo giocando un po’ di giochi nuovi che mi sono piaciuti molto (i giochi di kittyhorrorshow, We know the devil, ecc.) e volevo provare a fare qualcosa con quell’atmosfera. Non volevo effettivamente creare PAGAN, più che altro continuavo solo a giocherellare con questo spazio 3D e con idee di meccaniche e Technopolis è ciò che ne è venuto fuori. E poi Emporium, Autogeny, Eventide Sigil ecc., è come se tutto ciò fosse un’estensione di quella cosa.
Hai tirato fuori Deleuze e Guattari quindi, credo a rischio di sembrare pretenziosa, penso che il modo in cui lavoro su queste cose sia vicino a ciò che dicono in Anti-Edipo riguardo gli autori che fanno «passare dei flussi» che sono già pre-esistenti nel materiale grezzo col quale stanno lavorando. Penso che ci siano certi “flussi” (che tu hai individuato) già al lavoro nel medium quasi intrinsecamente, e tutto ciò che faccio è tracciare le cose e farle funzionare. Dunque non è che io scelgo di far diventare giochi queste idee, è che i giochi (intesi come spazi interattivi esplorabili) si prestano naturalmente, credo, a questi tipi di “opere”.
Non so se questa cosa abbia senso però è la risposta più sincera che so darti! Ahah




Genealogia di un evento – Body I do not want this body
Se la nostra vita manca di zolfo, cioè di una costante magia, è perché ci compiacciamo di contemplare le nostre azioni e di perderci in riflessioni sulle forme fantasticate delle azioni, anziché lasciarci condurre da esse.4
Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio
Painticus suggerisce un ordine degli eventi della trilogia diverso da quello dell’ordine d’uscita dei titoli5. Se l’elemento estetico fondante delle opere è il decadimento, non c’è dubbio che Autogeny sia l’ultima parte del percorso; su questo presupposto si fonda la sua idea che Emporium narri eventi precedenti a quelli del primo titolo, Technopolis, a giudicare dallo stato d’entropia degli elementi dei rispettivi cyberspazi. Se in Emporium sono presenti delle figure armate, i cavalieri di Artù da radunare per forgiare Excalibur, in Technopolis i personaggi non giocabili sono ridotti a delle forme rocciose (della stessa materia dei cavalieri appena citati) sull’orlo dell’astrazione. Li si identifica come figure umanoidi solo in virtù del fatto che qualcuno di essi ha un atteggiamento umano – anche se molto alla lontana. La presenza, inoltre, di una particolare nave, fornisce un altro indizio: in Technopolis è ormeggiata ma in Emporium la si vede salpare in uno dei finali. In Autogeny, infine la si vede parzialmente affondata.






Così la stessa Excalibur è chiamata col suo nome in Emporium e poi riproposta nei titoli successivi come una generica “Mystic Sword”. La stessa Oleander Garden nella pagina principale di Technopolis scrive: «Questo è un gioco su una città all’alba dove nulla ha avuto senso per almeno sei ore, o forse seimila anni». Centinaia, forse migliaia di anni sono passati dagli eventi di Emporium, dunque. C’è anche da dire, però, che l’obiettivo principale del primo titolo è quello di scolpire una statua, la Venere di Milo, che poi nel secondo è presente da subito come relitto semi-sotterrato, dimenticato anch’esso – l’obiettivo di quest’ultimo gioco, infatti, non è più “al femminile” (scolpire la Venere) ma al “maschile” (radunare i cavalieri di Artù per forgiare Excalibur). Tutto ciò quindi riporterebbe Technopolis ad essere considerato come il primo capitolo della trilogia.
Nella pagina principale di Emporium l’autrice scrive: «È un semi-seguito [il grassetto è mio n.d.r] di PAGAN: Technopolis». In effetti nei primi 2 cyberspazi creati da Oleander Garden non c’è alcun vincolo che li definisca cronologicamente se non per un grado diverso di disgregazione (si noti però che i “mondi” delle due opere non sono gli stessi), essi sono linee di una rete che non prevede alcuna gerarchia, alcuno sviluppo. Certo Autogeny è da intendersi come il limite raggiunto dall’entropia dell’universo di Garden nell’ambito di queste tre opere, eppure è possibile iniziare il percorso all’interno del mondo dell’artista anche da quest’ultimo. È pur vero che ciò potrebbe portare a credere che non ci sia davvero alcun sistema di pesi nella Trilogia: in realtà è palese che Autogeny si ponga come un momento di rinascita, di “Perfezionamento dell’uomo”.
«Non c’è alcun Excalibur, alcuna Venere»6.



«Neon Genesis Autogeny Evangelion»
La Trilogia PAGAN sembra guardare molto a Neon Genesis Evangelion (1995-97) di Hideaki Anno nell’approccio alle molteplici materie impiegate per la creazione e al modo in cui esse vengono modellate. Se PAGAN è il racconto fisico di una transizione di genere e, ancor di più, della costruzione/creazione di un nuovo corpo, un’autogenia appunto, la colossale opera di Anno che si sviluppa – almeno nel suo primo ciclo di vita – negli stessi anni dell’attività della fittizia XENOS Softworks (1995-1997) è il lato psicologico della medaglia, quello più legato all’alienazione e incomunicabilità di/tra figure rifiutate e isolate, anch’esse inquiline in corpi che non appartengono loro (secondo la società, almeno). Shinji e Asuka, i due protagonisti di Neon Genesis Evangelion, sono due caratteri stereotipati rinchiusi in 2 corpi altrettanto stereotipati ma invertiti: Shinji è una ragazzina timorosa e incapace di prendere in mano il suo destino, Asuka è un eroe che affronta tutto di petto, forte e determinato. L’idea di femminilità e mascolinità imposta dalla società (non solo giapponese) è forzatamente inculcata da Anno nella forma fisica che le si oppone diametralmente, creando uno scarto essenziale tra i personaggi e che ne motiva la gran parte delle azioni/decisioni.
Non solo, figure come Rei Ayanami sono fondamentali per leggere Evangelion dal punto di vista della questione di genere7. Essere quasi divino, Rei è in bilico tra il maschile e il femminile e soprattutto si fa portavoce del sentimento di estraneità dell’io all’interno del proprio corpo (non è forse quello che fanno i piloti degli Evangelion? Non si rifugiano forse in corpi esterni e non sono forse questi gli unici momenti in cui essi riescono ad avere un contatto l’uno con l’altro?). È Rei stessa a dire: «Io sono me stessa. Questo corpo costituisce il mio essere, la forma che definisce il mio essere. Il mio io visibile, che però non percepisco come il mio io. Strana impressione. Sento come il mio corpo disciogliersi. Non riesco a distinguere me stessa. La mia forma va dissolvendosi. Avverto presenze esterne al mio io. C’è qualcuno là fuori, al di là della soglia?»
Body I do not want this body era il titolo di uno dei videogiochi di XENOS Softworks, e in Evangelion nessuno vuole il suo corpo. Se, come dice Painticus nel suo video citato in precedenza (con una formula di comodo ma immediata), il senso ultimo della Trilogia PAGAN è «sii te stesso», Evangelion risulta essere tra le opere d’arte più vicine a quella di Oleander Garden in questa misura. Se la Trilogia è la conseguenza del peso sopportato da un ragazzo o ragazza alle prese con una fase della propria vita fisicamente e psicologicamente distruttiva (quello della transizione di genere), Evangelion è l’occhio che osserva in che modo i meccanismi di una società repressiva agiscono su queste persone. Come pura suggestione, si noti che l’accesso al server di Plaza 96 in Autogeny è accompagnato da una rielaborazione di Komm, süßer Tod (lett. “Vieni, dolce morte”) di Johann Sebastian Bach; Komm, süßer Tod è anche uno dei brani di chiusura del film The End of Evangelion (1997, 96’) e la scritta Komm, süßer Tod compare numerose volte su uno dei file di testo nel pc di Vivian in ISOMORPHISM.



Il tempo impresso: C’è qualcosa in particolare che ti colpisce del ciclo Arturiano, di primaria importanza sia nella Trilogia PAGAN che in HEXCRAFT: Eventide Sigil?
Oleander Garden: Credo che l’interesse per il ciclo arturiano sia tale solo nella misura in cui quelle storie (e altri romanzi cavallereschi) sono questa sorta di corpi decentrallizati di materia mitica su cui tutti i moderni fantasy occidentali (e così anche molti Giochi di Ruolo) sono costruiti. È come se fosse uno strano e instabile substrato pieno di storie contraddittorie e motivi ricorrenti – cioè, c’è un motivo se Barthes usa la “morte di Artù” per chiarire il suo pensiero sulla “morte dell’Autore”, giusto? Nessuno può dire quanti autori ci siano, tanto meno decidere su un unico significato del testo da considerare come “intenzionale” o autorevole o canonico. Lo trovo davvero avvincente.
Più in generale la Trilogia PAGAN si fonda su una modalità compositiva e strutturale analoga a quella di Evangelion e così la maniera in cui Garden e Anno hanno modulato la loro materia grezza: entrambi lavorano con ciò che Carl Gustav Jung chiama “inconscio collettivo”, estrapolano e confondono, mescolano e tritano elementi cristiani, cabalistici ed esoterici, croci, tarocchi, pozioni, miti, leggende, Storia e storie. Entrambe le opere soffrono di una tensione forse eccessiva verso il simbolo e non si ripeterà mai abbastanza quanto il simbolo nuoccia all’opera d’arte e la faccia scadere nell’ambito del mero gioco risolutivo; come Anno, però, Oleander Garden non va mai così oltre al punto da risultare stucchevole, certamente aiutata dall’astrazione nella quale sono tenuti i suoi elementi archetipici (per tornare a Jung); essi riescono quasi sempre a rimanere suggestioni atmosferiche e solo in qualche caso costringono il fruitore a leggere la Trilogia con l’ambigua rigidità con la quale si leggono i tarocchi. È in virtù del presupposto stesso sul quale si fondano questi tre videogiochi che si riesce a superare la sensazione che – a tratti – ci si trovi davanti all’esercizio di un acrobata dell’esoterismo, soprattutto nell’ultimo dei tre capitoli: questi cyber-spazi sono al collasso.
«Piazze abbandonate e cumuli di rifiuti digitali»
Gli MMO sono davvero strani. Al loro meglio, trascendono i normali confini dei “giochi” e diventano spazi in cui ci rifugiamo; luoghi in cui interagiamo gli uni con gli altri. Sono come piccole piazze digitali. Quindi, cosa succede quando togli quella dimensione sociale? Che genere di cose vengono a galla quando rimane solo l’impalcatura? E, soprattutto, cosa ci lasciamo dietro una volta che ce ne siamo andati?
Da un’intervista a Oleander Garden
Tutti hanno ricordi legati ai luoghi in cui abbiamo vissuto e, allo stesso modo, sospetto che tutti coloro che sono cresciuti online abbiano ricordi legati al paesaggio digitale che abitavamo. Ed è sempre una sensazione strana, no? Tornare in quelle sezioni del cyberspazio e trovarle completamente abbandonate – o per lo meno, completamente trasfigurate. PAGAN: Autogeny riflette il mio interesse per quel tipo di esperienza: la strana malinconia di vedere la tua vecchia “casa” in rovina.8
Se in Dark Souls 3 (From Software, 2016) il collasso è un accumulo di “rifiuti” di mondi che hanno esaurito il proprio ciclo e dunque la catastrofe è puramente spaziale/ambientale9, il grado d’entropia di Autogeny si manifesta con la disgregazione dello stesso codice del software/videogioco. Innanzitutto Plaza 96 esiste a prescindere dalla presenza del giocatore/Vivian (su questa dicotomia si tornerà più avanti) in quanto gli MMO sono, con le parole dell’autrice, «piccole piazze digitali» nei quali i giocatori interagiscono e costruiscono reti sociali; non solo, esse si trovano ad un livello intangibile e superiore dell’interazione videoludica: non sono, cioè, alla mercé del videogiocatore che ne modifica l’assetto con le sue azioni (costruendo/disfacendo, innescando avanzamenti di trama/tempo) ma esistono come grossi contenitori di eventi potenziali e si lasciano abitare contemporaneamente da un numero estremamente variabile di avatar. Riguardo Shadow of the Comet (1993) e Ultima: Martian Dreams (1991) Garden dice: «Questi tipi di giochi hanno creato un mondo che sembrava esistere per sé stesso, con una propria logica interna. Tu, il giocatore, eri un interlocutore non gradito, piuttosto che il centro dell’attenzione. […] Questi vecchi giochi dicevano: “No, c’è un mondo che ti precede e dovrai capire come averci a che fare”10»; così Autogeny proietta il videogiocatore all’interno di un mondo di questo tipo che però è disabitato (o quasi), praticamente morto. Qualcosa è rimasto, qualche NPC consapevole della situazione in cui versa Plaza 96 e che riconosce Vivian nonostante il suo corpo sia oramai sull’orlo dell’annullamento. Si ricordi, per quanto riguarda il supposto ordine cronologico dei tre capitoli della serie, le differenze tra i personaggi non giocabili che abitano Technopolis, Emporium e Autogeny: nell’ultimo capitolo essi sono letteralmente degli errori di sistema, dei glitch grafici che stanno perdendo il loro corpo (una versione ancor più acuta di questo deperimento si potrà incontrare in una zona avanzata del gioco). Plaza 96 è ora una struttura digitale priva di manutenzione da circa 20 anni (negli MMO la presenza di un vero e proprio corpo di manutenzione è fondamentale) e quando Vivian torna, evidentemente nella parte finale del suo processo di transizione, vive un’esperienza comune a moltissimi altri utenti: «Il nostro incontro con questo tipo di spazi ci rende anche profondamente consapevoli di ciò che abbiamo guadagnato: di ciò che questi luoghi hanno fatto per noi, di come hanno plasmato ciò che eravamo e di come ci hanno reso ciò che siamo oggi11».




L’avatar come forma astratta del sé
L’idea di Slavoj Žižek secondo cui nel mondo virtuale non siamo inibiti dalle norme sociali e quindi, in un certo senso, siamo più vicini al nostro “vero” io dovrebbe essere tenuta in considerazione in vista di questo punto. Seguiamo la sua logica, per il momento; nel mondo reale, i nostri comportamenti possono essere ridicolizzati e puniti; nello spazio virtuale, un maschio può assumere l’identità di una donna senza timore di sopraffazione sociale [grassetto mio n.d.r.] o, in molti videogiochi, uccidere civili senza paura di essere imprigionati. Nello spazio virtuale, a quanto pare, siamo più vicini ad un nocciolo di verità perché non esiste l’autorità del Super-Io a punirci, nessuno da temere, niente per cui sentirsi in colpa.12
Colin Cremin, The Formal Qualities of the Video Game
I luoghi digitali possono essere ambienti fondamentali per la formazione sociale di un/una ragazzo/a, essi sono rifugi e luoghi in cui intessere relazioni sociali con una libertà che il relazionarsi fisico non ammette o che comunque non permette di gestire con serenità. In questo senso sembra anche “fisiologico” che una tematica delicata come la transizione di genere e la condizione psicologica di una persona alle prese con un percorso così difficile (e assolutamente non accompagnato dalla società) abbia una sua compiuta espressione in un’opera interattiva e digitale come la Trilogia PAGAN. Ad oggi il videogioco è un medium tendenzialmente rivolto ai giovani e parla la lingua del suo tempo in maniera esclusiva. Internet è composto da una quantità innumerevoli di anfratti per qualunque tipo di nicchia. Su internet – seppur nella misura di un surrogato – la comunità queer può trovare uno spazio sereno e condiviso, arrivare ad una consapevolezza svincolata dalle luride convenzioni del mondo “di fuori”. L’efficacia dell’opera di Oleander Garden risiede (ora) proprio nell’esclusività del rapporto tra l’oggetto e il suo fruitore in un determinato contesto storico. Oltre quello, la trilogia tende all’infinito nella misura in cui la ricerca di un «“vero” io» è propria di qualunque generazione. Non c’è alcuna Venere, nessun Excalibur, ci sono solo eventi nelle infinite relazioni di un rizoma. La meccanica da “gioco di ruolo” e l’utilizzo di una visuale in prima persona in queste opere sono a tal proposito fondamentali.
Il gioco di ruolo è di per sé un invito alla costruzione di un’identità sulla base delle proprie scelte. Se però nel videogioco canonico le caratteristiche del proprio personaggio sono sbilanciate a causa di una varietà di razze/clan/classi, in Autogeny queste sono più categorie psicologiche che funzionali (Vivian può aumentare il suo livello di “poesia”, ad esempio).
Sulla visuale in prima persona: è chiaro che la struttura della Trilogia sia legata agli eventi fittizi che l’autrice crea attorno alla fantomatica XENOX Softworks, attiva a metà degli anni ’90, e che quindi Plaza 96 rispecchi stilisticamente l’idea di un videogioco di quegli anni, eppure nel «far passare dei flussi» del suo medium Garden perviene ad un’applicazione concettuale della visuale in prima persona. Tendenzialmente essa viene associata ad un alto potenziale di immersione del giocatore il quale, non controllando esternamente un avatar (visuale in terza persona, isometrica ecc.), finisce per “essere” il personaggio e sentire come proprio il suo punto di vista. Questo è spesso disinnescato nel caso in cui un videogioco sia di natura narrativa e/o cinematografica. L’immersione in quel caso è castrata, limitata, è racchiusa nella mera ruvidità dell’azione di gioco, di sensazioni fisiche come tensione, adrenalina, rilassamento ecc. Non c’è realmente la formazione di un “io” dell’avatar che combaci con l’“io” del videogiocatore. Se è chiaro che l’autrice di Autogeny dia una direzione precisa alla transizione (da maschio a femmina e non viceversa), è però evidente che nel neutro “Vivian” ogni giocatore può affrontare virtualmente la transizione inversa e leggere l’opera da un verso o dall’altro senza problema alcuno. In Technopolis l’atto di scolpire la Venere di Milo dando in pasto ad un televisore delle cassette, alimentando quindi un ideale volgare di bellezza femminile comunemente accettato13, invita ad una lettura più netta sul piano del genere, così come la frase che, in uno dei finali, recita: «I want to make it clear, a girl died here» (Ada Rook, Sardonica, 2018). In Emporium, al contrario, chi può radunare i cavalieri di Artù se non Artù stesso? L’avatar di Autogeny invece è molto più astratto, né maschio né femmina, è un evento generato dall’insieme di linee che trovano un punto d’incontro in Vivian. Si sarebbe potuto tranquillamente costruire un corpo maschile e non femminile (come invece accade) e liberare quell’entità costretta chiamata il “Martire” (figura centrale in Autogeny) nella forma del David di Michelangelo piuttosto che nella forma della Venere di Milo. Tutto ciò per dire che se c’è un’opposizione binaria tra Technopolis ed Emporium – con buona pace di Deleuze – necessaria a liberarsi di entrambe le forme dell’essere umano, c’è un’apertura verso un’entità libera in Autogeny.



Non è un caso che per liberare il Martire sia necessario ottenere il tarocco XXI, il Mondo, e che un finale alternativo sia ottenibile solo dopo aver trovato il tarocco 0, il Matto. Senza necessità di addentrarsi nelle varie letture che si possono dare delle carte, il Mondo è la carta del successo, della soddisfazione, dell’espressione compiuta del sé, è l’unificazione della dualità; il Matto, d’altra parte, è uno stato che precede la dualità, più instabile, più puro, in un certo senso: «Il Matto è una sorta di stato perfetto prima della dualità, e Il Mondo ci dà un assaggio del senso esilarante di libertà possibile solo se riusciamo a riconciliare gli opposti sepolti nella nostra psiche14»; «Il Matto rappresenta la vera innocenza, una sorta di perfetto stato di gioia e libertà, la sensazione di essere sempre uno con lo spirito della vita; in altre parole, il sé “immortale” che sentiamo è rimasto intrappolato nelle confusioni e nei compromessi del mondo ordinario15»; «Il Matto e Il Danzatore sono ermafroditi psichici, che esprimono la loro completa umanità in ogni momento, per loro stessa natura16».
Si noti inoltre che in molte rappresentazioni dell’Arcano XXI la figura centrale non è propriamente una donna. Il velo che copre il pube nasconde potenzialmente organi maschili mentre il seno femminile è lasciato volutamente scoperto. Non è un caso infatti che in alcuni mazzi Il Mondo sia addirittura barbuto. Vien da sé che non c’è completamento in Autogeny se si libera il Martire (completamento della forma fisica) senza aver prima ottenuto Il Mondo (unificazione della dualità interiore): il videogioco infatti forzerà la propria chiusura al completamento della sola costruzione del corpo. Questa meccanica chiaramente non è di carattere ludico, quanto piuttosto un’imposizione data dall’autrice per costringere il giocatore ad affrontare la catastrofe data dalla costruzione di un corpo nuovo senza che vi sia un’accettazione di ciò che dovrà poi abitarlo. Plaza 96, in breve, sta cercando di tenere rinchiusa un’entità distruttiva e l’unico modo per liberarla è unificare gli opposti, non forzare il predominio di uno dei due sull’altro.
Il Mondo e Il Matto, secondo Rachel Pollack, sono le uniche due figure degli Arcani Maggiori ad essere in movimento, in contrapposizione con i restanti Arcani che sono rappresentati come in posa fotografica: la loro natura è fluida, in costante cambiamento, sono carte “libere”, in un certo senso. E se Technopolis ed Emporium sono opere della fissità, di morte, di sculture di marmo e spade nelle rocce, Autogeny è costruito sulla mobilità e sul cambiamento. A tal proposito è essenziale considerare l’importanza dei finali alternativi (o “segreti”) nella Trilogia PAGAN.



«Who’s a solemn player, and who is but a stage? With bodies forged in bytecode, what difference does it make?». Sui finali imperativi e lo «Zen del non-giocare»
Parlare di finale “segreto” in questo caso è quantomai errato. I finali alternativi della Trilogia non sono chicche per giocatori particolarmente abili tecnicamente, né sono pensati per poter allungare di qualche ora il tempo di gioco di un utente. Si torna a ripetere che nelle opere di Oleander Garden non c’è niente di ludico, men che meno in questo senso; sarebbe anche errato parlare di finali “alternativi”. Non sono delle opzioni, non c’è alcun capovolgimento di senso (o colpo di scena, nel caso delle opere narrative) dipendente da un finale o dall’altro. Essi sono finali imperativi in quanto due potenzialità latenti dell’opera, così che il raggiungimento di un finale alternativo non contrasta con quello canonico ma anzi lo completa, è parte integrante dell’opera.
Si è discusso poc’anzi dell’importanza fondamentale del rapporto tra il Tarocco 0 e il Tarocco XXI in Autogeny; ebbene, come s’accennava, il Tarocco 0 fa parte di uno dei finali “segreti” o “alternativi” del videogioco. È impensabile quindi approcciarsi a queste opere accontentandosi di “vincere” la partita, sconfiggere i mostri, uccidere i nemici e ottenere punti. Il processo stesso attraverso il quale si arriva a questo finale, tra l’altro, è quanto di più metalinguistico si possa pensare. Oleander Garden devia i flussi del linguaggio del videogioco, si serve di un ventaglio di possibilità offerte dalla malleabilità della sua materia che ha dello straordinario17. Rovista nel medium proponendone un approccio critico e consapevole, predispone l’atto stesso dell’avviare il software come parte dell’esperienza e così l’evento della chiusura improvvisa, del glitch grafico, dell’errore del codice in cui tutti i videogiocatori sono incappati almeno una volta; tutto ciò diventa momento per riflettere sugli spazi abitabili ed esplorabili che i videogiochi possono proporre (diversi machinima esplorano queste dinamiche ma lo fanno nell’ambito del cinema, “dall’esterno”), sulla maniera in cui gli utenti stessi percepiscono e processano l’idea di un ambiente percorribile e man mano sempre più controllabile (ovvero quel rapporto apprendista-maestro cui fa riferimento Cremin nel suo testo già citato).
Il videogioco quindi crea uno scarto notevole nel rapporto tra sé e il fruitore, mette quest’ultimo in condizione di partecipare realmente al farsi dell’opera senza ingannarlo circa la sua posizione. Il fruitore è sincero “apprendista” (qualora non venga spacciato per tale ma ridotto al mero ruolo di “esecutore” o “spettatore” dalla sterminata schiera di videogiochi kitsch di “genere” indie – come se fosse una categoria estetica) ma mai artista e questo è possibile in virtù del fatto che i videogiochi di Oleander Garden (e Autogeny in maniera particolare) sono moralmente e spiritualmente significativi nell’ottica del sistema che Shelby Moser chiama “CGA” (Complete Game Algorithm) e che è per lei elemento essenziale senza il quale non si può pensare un’ontologia del videogioco18. L’algoritmo lascia dunque grande spazio di manovra al videogiocatore senza che quest’ultimo possa uscire dalle sue strutture. Così il videogioco appare realmente modellato dall’utente pur esistendo solidamente – come virtualità – nel codice.
Certo, ogni videogioco funziona secondo questo sistema: l’approccio di Moser però pone l’algoritmo come elemento primario per la valutazione critica dell’opera, esso diventa il nucleo stesso attorno al quale sviluppare un pensiero estetico nei confronti del singolo videogioco. Ecco, l’algoritmo di Autogeny è «un libro “rizomatico” con capitoli o righe non ordinati», c’è in esso un’apertura estrema nei confronti dell’utente che lo mette in forma e gli dà possibilità di svilupparsi ed esprimere le sue potenzialità. Eppure ciò che l’artista ha infuso al suo interno è chiaro (si legga: intenso), intatto. L’opera chiede all’utente di metterla in forma ma non dà lui possibilità di sformarla. In altre parole, le virtualità latenti del videogioco concedono al fruitore una quantità pressoché illimitata di esperienze diverse ma tutte precipue dell’algoritmo artistico del pensiero del suo autore.
L’arte non è vissuta, è osservata, e dunque si può avere un videogioco come opera d’arte solo nella misura in cui l’inganno dell’autore ai danni del suo fruitore sia tale da far credere a quest’ultimo di avere la possibilità di vivere la sua propria opera, di essere artista, così come l’autore del cinema delle origini ingannava i propri spettatori facendo credere loro di essere davanti a frammenti di realtà (non a caso i primi piani in quei film – immagini fuori scala, dunque – furono paragonati a mostruosità). E così la Trilogia PAGAN si pone come videogioco d’arte perché capace di tenere ben salde le proprie virtualità offrendole ad un videogiocatore che è chiamato ad esercitare lo «Zen del non-giocare»: così Miltos Manetas concludeva, nel 1997, il suo manifesto19. Così che l’arte possa rendere vigili.
Cosi domandando, noi attestiamo lo stato di difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che costituisce l’essere della tecnica, e con tutta la nostra estetica non custodiamo più ciò che costituisce l’essere dell’arte. Tuttavia, quanto più interrogativamente consideriamo l’essenza della tecnica, tanto più misteriosa diventa l’essenza dell’arte.
Martin Heidegger, La questione della tecnica
Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà (Friimmigkeit) del pensiero.20
Il tempo impresso: L’ultima domanda richiede una risposta molto semplice: mi consiglieresti (e così ai lettori) delle opere d’arte che ti piacciono? Un videogioco, un film, un libro, un album/composizione musicale, un dipinto (uno per ognuno, se per te va bene). Credo tra tutte le domande che potrei farti (e che ti ho fatto), questa sia una delle più importanti. Non per “svelare” qualche segreto nascosto in PAGAN o HEXCRAFT o altro; semplicemente per avvicinarsi, in qualche modo, a chi, lontano migliaia di km e allo stesso tempo così vicino, ha detto con la sua opera qualcosa di noi. Un romanzo? Un saggio? Un documentario, cortometraggio, fotografia o qualunque cosa tu voglia, se ne hai voglia. Grazie al tuo lavoro ho comprato nuovi libri, preso nota di alcuni film che voglio guardare, ascoltato nuova musica e posso tranquillamente dire che sono molto cambiato, con l’anima arricchita.
È stato un grande piacere per me aver avuto la possibilità di parlare con te. Arte per costruire i nostri atlanti profondi e personali, per mappare noi stessi. Cartografi di terre a venire.
Oleander Garden:
Videogame – /We Know The Devil/
Romanzo – Virginia Woolf’s /Le onde/
Musica – Vediamo, il brano “Rest” di Wicca Phase Springs Eternal
Dipinto – Pioggia, vapore e velocità di Turner
Cortometraggio – /Possibly in Michigan/
Saggio – ‘Photography, or the Writing of Light’ di Baudrillard
Foto – Questa qui di Aaron Siskind:

E, di nuovo, grazie – è commovente sapere che tu abbia avuto così tanto dai miei giochi, e sono sempre così felice di venire a sapere che hanno toccato qualcuno, in un modo o nell’altro.
NOTE
1 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani: Capitalismo e Schizofrenia, Roma 2003, p. 53.
2 Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Milano 1990, p. 54.
3 HEXCRAFT: Eventide Sigil (2020) è l’ultimo videogioco di Oleander Garden (se non si considera HEXCRAFT: Harlequin Fair, in uscita nel 2021)
4 Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino 2000, p. 128.
5 Si vedano i suoi due video fondamentali su queste opere: Adventures in a Dead MMO – PAGAN: Autogeny Review e Analysing the PAGAN Trilogy.
6 ClaymoreGwen, Haecceity – Gender through Media in PAGAN.
7 Non di rado sono state proposte letture di questo tipo per Neon Genesis Evangelion. Si veda ad esempio Genevieve Petty, Saving Humanity through Gender Reversal: A Feminist Interpretation of Shinseiki Evangelion.
8 Joel Couture, Road to the IGF: Oleander Garden’s PAGAN: Autogeny.
9 Si veda Stefano Caselli, Dentro la catastrofe: gli spazi post-apocalittici nel videogioco.
10 Joel Couture, Road to the IGF.
11 Joel Couture, Road to the IGF.
12 Colin Cremin, The Formal Qualities of the Video Game: An Exploration of Super Mario Galaxy With Gilles Deleuze, 2012, p. 75.
13 Si veda a tal proposito il video molto approfondito di ClaymoreGwen sull’argomento, nota 6.
14 Rachel Pollack, Seventy-eight degrees of Wisdom: A book of Tarot, London 1997, p. 14.
15 Rachel Pollack, Seventy-eight degrees of Wisdom, London 1997, p. 16.
16 Rachel Pollack, Seventy-eight degrees of Wisdom, London 1997, p. 17.
17 Si aggiunge, tra le altre cose, la possibilità – e necessità – da parte del videogiocatore di consultare un manuale in PDF su Autogeny, fornito insieme all’opera stessa, e che è messo in forma poeticamente, risultando infine essere un tassello d’importanza pari ai cortometraggi, brani e racconti ai quali si può arrivare dal sito web dell’artista.
18 Ci si riferisce al suo saggio Videogame Ontology, Constitutive Rules, and Algorithms in The Aesthetic of videogames, a cura di Jon Robson, Grant Tavinor, New York 2020.
19 Miltos Manetas, Manifesto of Art After Videogames, 1997.
20 Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e Discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Milano 1991, p. 27.
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