Mauro Santini, Dubhe (Vaghe stelle), 2020, 6′
Arrivato al suo 50esimo compleanno, il Collectif Jeune Cinéma festeggia, nell’ambito della 23esima edizione del Festival des Cinémas Différents de Paris, con una serie di approfondimenti su autori e film che hanno fatto la storia del collettivo, in aggiunta ai 33 film della competizione internazionale. L’obiettivo del festival è quello di avere contemporaneamente uno sguardo sul passato e verso il futuro, nella consapevolezza che «c’è ad oggi un’abbondanza di registi che fanno dei film sperimentali invece di essere sperimentali». L’obiettivo della critica, dall’altro lato, è quello di cercare di tracciare dei solchi, dei sentieri lontani da questa tendenza generificante in atto, dall’elevazione a stilema della tautologia delle tautologie: l’arte sperimentale. Se di focus si deve parlare, dunque, è solo nella misura in cui assai luce su un oggetto ne oscura l’intorno, e qui l’attività critica è proprio quella di parlare di qualcosa per definire contemporaneamente qualcosa di cui non si vuole (perché sarebbe moralmente sbagliato farlo) parlare.
Tutto ciò che era bello e giusto era astrale, dire d’una persona, d’un luogo che erano stelle esprimeva un’esperienza, una sovrapposizione d’immagini. I Latini dissero, per denotare il pensare,
Elémire Zolla, Aure. I luoghi e i riti
con-siderare, stare alle stelle, accanto ad esse, e de-siderare fu il venir meno alle stelle, provare una mancanza.
Nelle parole di Mauro Santini: «“Vaghe Stelle” è un film in sette movimenti (dal numero delle stelle che compongono l’Orsa Maggiore) che possono però essere proiettati anche singolarmente (come puoi ascoltare le canzoni di un album musicale) o addirittura mostrati insieme ma in un ordine di volta in volta diverso, modulato a piacimento da un curatore»; così, scrivere di Dubhe è scrivere isolatamente di un solo brano dell’album Vaghe stelle e questo certo non rende giustizia all’opera nel suo complesso. D’altra parte però lo sguardo di Santini è quello, gli oggetti privilegiati del suo cinema stanno lì, e se scrivere di Dubhe non è sufficiente, è nell’invito all’ingenuità di una prossima visione che si gioca la partita, nel dolce abbandono alle immagini impreviste e – come le chiama lui – epifaniche del suo cinema, così paziente e quieto, minuto e fragile.
Se la nostra esperienza ci dice che che “stella” è il puntino – più o meno grande – di luce che vediamo di notte, per il cinema “stella” è anche la luce che decora un albero o la luce di un lampione o le luci di casette lontane che formano delle piccolissime e terrestri galassie. E queste luci le consulta tutte, Santini, così come gli uomini antichi si facevano guidare dagli astri – quelli veri – in cielo. Lo fa anche con le luci delle automobili, ulteriori stelle su vie d’asfalto e notte.
Si noti che non è solo un atto di consultazione, il suo; è un gesto anche, e soprattutto, di contemplazione, pure di richiesta, volendo. Perché le sue stelle possono anche comparire in un cielo totalmente nero, cadere da una parte all’altra, tramontare addirittura. È l’atto di una creazione che risponde ad un’esigenza di ignoto. Le sue stelle non indicano una direzione precisa, che lui cerca, piuttosto ognuna di esse indica la via giusta. E dunque sono tutte da consultare, queste stelle, perché se gli antichi avevano necessità di non perdersi, Santini ha bisogno proprio di questo, di smarrirsi, di alimentare la sua passeggiata notturna. Chissà perché allora alcune di queste stelle sono puramente cinematografiche (e quindi artificiali), forse perché è compito dell’artista darsi delle direzioni verso l’ignoto, seguire cartelli stradali per le strade dell’insperato; piantarli certi cartelli, qualora non ve ne fossero (cosa non così rara).
Tutto questo lo fa con una sconcertante levità: la sua macchina da presa (tenuta a mano), se si volesse intenderla come protesi del suo sguardo o, meglio, del suo atto guardare in toto, la sua macchina da presa non è tremolante o febbricitante, è dolce proprio in quei micro-movimenti di chi sta fermo (ma che non è propriamente immobile) a guardare qualcosa. Così anche per il gesto di voltarsi nel seguire un’altra vaga stella dell’Orsa di cui cantava Leopardi.
Mi piace pensare che la camera non sia stabile perché tecnologicamente avanzata ma perché tenuta da una mano leggera che non si affatica ad aspettare.
Bibliografia
https://www.doppiozero.com/materiali/il-vedere-commosso-di-mauro-santini/
https://www.nazioneindiana.com/2020/04/08/di-tutto-il-trucco-solo-una-lacrima/
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