La grazia della fede inconsapevole: sul cinema di Dmitri Frolov

Sul cinema di Dmitri Frolov con un approfondimento su The leaving, 1991, 6′; The Granny’s Apocrypha, 2001, 15′; Last Love, 2017, 18′.


Un po’ di contesto: Dmitri Frolov nasce nel 1966 a San Pietroburgo e opera soprattutto a partire dalla metà degli anni ’80, proprio negli anni della perestrojka. Il contesto in cui cresce (dal punto di vista cinematografico) è quello del cosiddetto Cinema Parallelo: della rivista-cineclub-samizdat1 Cine Fantom (alla quale il regista afferma di essersi iscritto ma di non aver mai ricevuto alcuna uscita2) e dei suoi fondatori Igor e Gleb Alejknikov, anche fondatori in Russia del primo festival di cinema indipendente – dal titolo, appunto, Cine Fantom; è il contesto del giovane Aleksandr Sokurov e dei suoi film “liberati” proprio con la perestrojka3; è il contesto del Necrorealismo4, di Evgenij Jufit e Evgenij Kondrat’ev (che lavorarono anche nella sezione sperimentale del Lenfilm sotto la supervisione di Sokurov). È, in generale, il contesto di una Russia che viene fuori da un periodo di forte censura e controllo produttivo, un contesto in cui gli autori di cinema palesano la loro dissidenza o semplicemente si esprimono con maggiore libertà creativa, fino a toccare vertici di assoluta armonia o di stupefacente goffaggine. Olaf Möller, in un saggio dal mitico titolo Morti viventi di ieri e di domani. Una rapida passeggiata per Cine Fantom con zombie e altri spettri, scrive che

[nei primi anni della perestrojka] esplorare nuove idee ed estetiche era diventato qualcosa come un passatempo nazionale: tutti, inclusi la nonnina e la sua capra, hanno provato questi bizzarri esperimenti di sovversione, e lo ricordavano affettuosamente, giusto per capire cosa fosse questa strana bestia che si sviluppava in mezzo a loro, questa cosa-libera all’occidentale.5

Dmitri Frolov sembra esser figlio proprio di questa tendenza. Con all’attivo una cinquantina di film, il suo percorso si muove tra favole moraleggianti e ammonenti («Tutti devono essere pronti a comparire davanti a Dio, altrimenti sarà irrevocabilmente troppo tardi. Mio Signore! Salva le nostre anime colpevoli! Non abbandonarci!», dichiara l’artista in relazione al suo film The Leaving; un altro film ha come titolo Be careful!, e tanto basta) e ingenue sperimentazioni sul cinema muto (è palese l’amore per l’Epoca d’argento della poesia russa e per il cinema del primo ventennio del ‘900), incursioni nel surrealismo più spinto, nella commedia pseudo-slapstick a fino a forme più composte e solenni.

Ciò che è veramente curioso di questa figura (ancor prima di andare “dentro” i film) è l’immagine della sua presenza in rete che si può tentare di ricostruire dalle informazioni reperibili. Su tutto spicca l’ingombranza di un ego che si espande ben oltre le dichiarazioni dello stesso – e questo è parecchio strano e ironico: se da una parte abbiamo una caterva di nomi e date nella sezione “Premi” delle sue pagine Wikipedia e dei suoi film sul suo canale Vimeo, dall’altra si può facilmente constatare che metà dei link ai festival a cui ha partecipato non sono disponibili/funzionanti e che la restante metà si riferisce a semplici partecipazioni e non a vittorie effettive (per quanto valga una vittoria a un festival di cinema…); se da una parte questa caterva di nomi e date a primo impatto fa un certo effetto, dall’altra fa anche un certo effetto leggere le discussioni della community russa di Wikipedia che propone di sopprimere l’articolo (o gran parte di esso) per via della quantità di informazioni errate o fuorvianti6.

E poi una serie di piccoli indizi (spesso materializzati sotto forma di un inglese discutibile) non fanno che alimentare questa piccola “deformazione” propria di ogni artista che si rispetti. Il fatto, ad esempio, che a proposito del film Do not August (1991) si faccia presente – senza apparente motivo – il primato del Cinema Parallelo sul Dogma 95 di Lars Von Trier e soci riguardo certi stilemi7; oppure il fatto che Phantom of White Nights (1991) sia definito «L’ultimo film girato nell’Unione Sovietica» e che, molto genericamente, «L’originalità e la freschezza del film ne determinarono il successo nei primi anni ’90». Andiamo avanti: RUMBA (1999)è un remake russo de L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière; The Bigmoon Nights (1989-93), poi, è il «Primo film “trash” girato in Unione Sovietica»; Ten Minutes of Silence (1995) ha fatto quello che 4’33” di John Cage ha fatto in musica.

Che il sarcasmo del paragrafo precedente non inganni: non è questa una lunga presa in giro sotto forma di articolo. Bisogna però prendere atto della poca consapevolezza di Frolov come autore. Il suo riferirsi al cinema “sperimentale” come a un cinema di genere (con le sue tecniche specifiche e le sue tendenze storicizzate), così come questa tendenza naïf – si è detto anche “egoica” – a cercare il primato e l’originalità del suo percorso al punto da “spiegare” letteralmente i suoi film nelle sinossi, rivela una poca contezza dell’orizzonte entro cui si posiziona il suo lavoro. Le riflessioni (scritte) portate avanti dai suoi film sono assolutamente ingenue e non di rado sfociano nel vero e proprio kitsch. Certo, kitsch è un termine assai sfuggente: oramai non è più sinonimo di “male nell’arte”, ad esempio, e non è più una categoria etica (anche se a volte non sarebbe male se lo fosse nuovamente…), eppure qui sembra ci si trovi più nel paese dell’inconsapevolezza del cattivo gusto, in cui l’estetica kitsch non è compiuta e/o adottata ma è conseguenza del deragliamento di intenzioni più alte (che chiamiamo comunque – facendo il giro e sbucando terminologicamente di nuovo qui – kitsch). E si fatica addirittura a prendere sul serio le parole di certi che di Frolov hanno scritto qualcosa8. O alle stesse parole del Festival di Rotterdam in cui la scheda sull’autore recita: «Dmitri Frolov (1966, Russia) è una delle figure di spicco del cinema d’avanguardia post-perestroika russo. Fa esperimenti estetici che rimandano al cinema muto e a un nuovo livello di linguaggio cinematografico»9. Questa stessa descrizione è stata utilizzata in diversi profili dell’autore su piattaforme diverse (e ciò fa pensare che abbia scritto proprio lui – o chi per lui – quelle mini-biografie). Insomma, il nostro fa di tutto per essere riconosciuto, e il suo curriculum è copiaincollato ovunque. Questa non è certo una pratica estranea al mondo dell’arte: quanti pittori/scultori sconosciuti e/o irrilevanti hanno un loro catalogo personale pieno zeppo di panegirici contributi critici scritti da compaesani, parenti (più o meno lontani) e colleghi?

Fare un passo di lato, a questo punto, aiuta forse a rivedere l’opera di Frolov sotto una diversa luce. Scavando un altro po’ nell’attività del regista viene fuori – e ritengo sia da non sottovalutare – una certa fiducia da parte sua nel mezzo cinematografico come strumento di elevazione spirituale10. Non che questo basti, anzi – «tutta la cattiva poesia scaturisce da un sentimento genuino»11, d’altronde. Però c’è una sincera onestà in molti suoi lavori, per quanto naïf e kitsch.

Tre film saranno presi in esame, in questa sede, tra i più interessanti della sua produzione: The leaving (1991), The Granny’s Apocrypha (2001) e Last Love (2017). Non è un caso che tutti e tre siano accomunati da temi religiosi: la forte religiosità è una caratteristica comune al popolo russo, e il regista stesso non l’ha mai negato12. E in quanto timorato di Dio, non c’è motivo di non credere all’onestà di questi suoi film.

The Leaving è certamente il più icastico dei tre. Dalla durata di poco più di 5 minuti, l’opera si divide idealmente in 3 segmenti: una panoramica iniziale su un paesaggio completamente coperto di neve; una sequenza con un Cristo ammonitore; una sequenza in cui il Cristo si allontana dalla macchina da presa e si perde nel bianco della neve. Il titolo è eloquente, così come le immagini: Gesù è a terra, completamente vestito di bianco, e viene svegliato dal suono di campane. Dal volto deluso, egli guarda fisso nell’obiettivo della cinepresa, interpellando direttamente gli spettatori. Dopo alcuni minuti, come se il discorso congiunto del suo sguardo all’umanità e della camera (che mostra i buchi nelle mani e il sangue che sporca la neve) nei confronti dello spettatore fosse terminato, si volta e si allontana, facendo eco a una formula comune al cinema di un suo collega, Konstantin Lopušanskij. Non solo questo: il film sembra essere un vero e proprio pastiche di figure che hanno fatto la storia del cinema sovietico/russo. Si veda la colonna sonora: elettronica e solenne, come quella dei film musicati dal grande Ėduard Artem’ev (tra i più famosi sicuramente Solaris, Siberiade, Stalker, Oblomov). E com’è iconica l’inquadratura a volto tagliato di Sotnikov ne L’ascesa (1977) di Larisa Šepit’ko. L’immagine dell’uomo che si perde nella distanza, come si diceva, è una delle preferite di Lopušanskij. Così si chiudono Lettere da un uomo morto (1986), Il visitatore del museo (1989), Sinfonia Russa (1994), The Role (2013) – quasi tutta la sua filmografia, in pratica. La chiusura di Sinfonia Russa, poi, ha come protagonista proprio una sorta di Cristo. E tutti e tre questi finali sono figurativamente analoghi alla sequenza della Passione nell’Andrej Rublëv (1966) del loro illustre collega Tarkovskij (il finale di Sinfonia Russa, tra le altre cose, è un finale tarkovskiano).


The Granny’s Apocrypha ha un titolo ancora più eloquente, e suggerisce dopotutto che per ogni fedele esiste un Vangelo apocrifo. Il fedele, in questo caso, è la piccola nipotina, a cui la nonna racconta storie tratte da un Vangelo che è fatto quasi esclusivamente di illustrazioni – matrioska di racconti per immagini. E così, di storia immaginata in storia immaginata, la bambina immagina la sua personale versione di alcuni momenti della vita di Cristo: la pesca miracolosa (Lc 5,1-11; Gv 21,1-14), le nozze di Cana (Gv 2, 1-11); la guarigione del lebbroso (Mt 8, 1-4; Mc 1, 40-45; Lc 5, 12-16); l’incontro con il giovane ricco (Mt 19, 16-30; Mc 10, 17-27; Lc 18, 18-30). Questi eventi immaginati, allora, non possono che essere fatti di figurette inquadrate a distanza, omini sincopati dalla carenza di fotogrammi per secondo che ricordano il cinema delle origini. Omini colorati tra i quali Gesù si distingue grossolanamente e inequivocabilmente, in cui ogni movimento è esasperato a favore della lettura chiara del gesto. L’acqua si trasforma in vino tramite un sistema à la Méliès e che Frolov non vuole assolutamente “ammodernare”; bere un sorso di vino, poi, basta a far cadere un uomo adulto all’istante, purchè il gesto comunichi immediatamente la veridicità dell’avvenuto miracolo.

Quadretto dopo quadretto Gesù raccoglie seguaci e arriva in dei ruderi in cui guarisce un lebbroso. È chiaro che i ruderi di oggi non erano ruderi 2000 anni fa, eppure in quest’idea di rappresentazione infantile della bambina un racconto lontano non può che ambientarsi in un luogo che ha su di sé il peso di tutti gli anni che la separano da esso.

Le immagini di The Granny’s Apocrypha non sono molto dissimili dalle immagini dei lubki, stampe popolari con didascalie diffuse in Russia a partire dal XVII secolo e rappresentanti perlopiù vignette di stampo religioso13, fondamentali per le classi meno agiate (e acculturate). A proposito del film, Dmitri Frolov ricorda come fino alla fine degli anni ’60 nell’angolo rosso14 delle case dei piccoli paesi russi si potevano trovare stampe popolari di temi religiosi. Aggiunge poi: «Naturalmente, i loro creatori non erano pittori professionisti o grandi teologi. Disegnavano come meglio potevano, ciò che sentivano, senza conoscere né regole né leggi. Gente semplice senza istruzione, dalle piccole idee, cercava di glorificare Dio con la propria creatività, che risuona nei cuori dei contadini o artigiani per quello che sono»15.

Con immensa dolcezza le parole finali della nonna non vengono udite dalla bambina, forse perché troppo piccola per afferrarle completamente. La sua immaginazione però mescola, infine – in un’altra immagine tarkovskiana – l’immagine di Cristo che cammina sulle acque con quella di sé stessa e sua nonna, mano nella mano, troppo eteree per affondare.


Il terzo film “religioso” di Frolov, Last Love, mette in scena in un primo segmento la Genesi, la comparsa nel giardino dell’Eden di Adamo ed Eva, la cacciata, e in un secondo segmento i due che si ritrovano nel mondo contemporaneo, legati ancora dall’amore e dal peccato. È certamente il più kitsch, questo terzo film. Non meno moraleggiante di The leaving, non meno naïf di The Granny’s Apocrypha. Nel corso del film vengono lette una serie di poesie di Fëdor Tjutčev16 (nella cui produzione non di rado si affrontano temi di questa portata) mentre viene messo in scena il racconto biblico in una versione – lo si sarà capito oramai – dall’espressività ridotta all’essenza, con i due che compaiono sulla Terra in dissolvenza e che esprimono la felicità della nascita col semplice atto bambinesco del saltellare e giocare. C’è una sola mela in tutto il giardino, Dio è il cielo (a tal proposito: se non sono vittima di una pareidolia, il regista ha addirittura sovrimpresso leggermente un volto umano tra le nuvole), la musica si blocca quando mangiano la mela e riprende, con toni più cupi, quando iniziano a fare sesso (cioè dopo aver “consumato” il peccato – d’altronde i due non si vergognano della loro nudità né ne hanno contezza prima di mordere il frutto). Insomma, una ricca sequenza di simboli elementari esprimono con la pregnanza dei semplici quanto è necessario comunicare in un racconto di questo tipo.

L’amplesso dei due si astrae in immagini che tornano alla rigidità dei film delle origini e al contempo all’astrazione cromatica dei film della seconda metà del ‘900. I due vengono cacciati dal giardino – in un’ennesima immagine innevata già vista negli altri film – e si ritrovano catapultati nella nostra epoca, in un luogo industriale e disabitato, luogo che, se non si fosse ancora capito, è risultato di quell’amore/peccato originale. E se questo non dovesse bastare, una voce fuori campo legge The final cataclysm di Tjutčev. Ecco, in quest’ultimo film siamo davanti a un vero e proprio lubok, una vera e propria vignetta religiosa con tanto di descrizione moraleggiante proveniente da un grande poeta russo.

Dunque, l’opera di Frolov è, esteticamente, infinitamente meno rilevante di quanto tutto questo palazzo di recensioni/video/interviste voglia far credere, e moltissimi dei suoi film hanno artisticamente poco da dire. C’è però una certa grazia nel lavoro dell’artigiano intento a glorificare Dio, come afferma lo stesso regista. Come nei fregi scolpiti delle chiese medievali, come nelle prime attestazioni di manufatti votivi, proprio come in quelle immagini sacre dipinte da “gente semplice”, c’è la grazia di chi appartiene più alla materia che allo spirito, come quella del falegname che rende grazie a Dio con qualcosa che ha valore solo in questa vita e non nell’altra. Certo, il discorso portato avanti da Last Love, che è un film del 2017, è assolutamente anacronistico e – lo si è detto tante volte – kitsch; e The leaving non va poi tanto lontano. The Granny’s Apocrypha, invece, mantiene una solidità che può seriamente essere definita universale, capace di elevarsi quanto basta al di sopra di una banale funzione proselitista per avere in sé la scintilla della grande bellezza.

Nel film Downfall of dieties (1988) di Andriy Donchyk, i dipinti con soggetti sacri di un villaggio rurale negli anni ’30 vengono imbrattati dalle autorità sovietiche che impongono ai contadini di cancellarli e dipingere sopra essi dei nuovi soggetti conformi alle regole figurative del regime. Un anziano uomo del villaggio si rifiuta di farlo: «Non dipingerò su un lavoro umano. Non distruggerò un’umana santità».


Bibliografia

1 Il termine samizdat significa “edito in proprio” e indicava le pubblicazioni clandestine nate dai dissidenti sovietici degli anni ’50-’60.
2 https://seance.ru/articles/dmitry-frolov/.
3 L’esempio più clamoroso è quello di La voce solitaria dell’uomo, completato nel 1978 e rilasciato nel 1987. Frolov, in realtà, dice di essere stato enormemente colpito da Mournful Unconcern, anch’esso distribuito nel 1987 dopo essere stato completato nel 1983.
4 Si veda Seth Graham, Necrorealism, 2001, http://rusfilm-old.pitt.edu/booklets/Necro.pdf.
5 Olaf Möller, Morti viventi di ieri e di domani. Una rapida passeggiata per Cine Fantom con zombie e altri spettri, in Giovanni Spagnoletti (a cura di), Cinema russo contemporaneo, Venezia 2010, p. 211.
6 Al momento della stesura di questo articolo (febbraio 2023), la pagina russa di Wikipedia dell’autore vede un ultimo intervento a proposito delle informazioni “da correggere” che risale ad ottobre 2022.
7 «Il film è stato girato nei giorni del colpo di stato nell’agosto 1991 a Leningrado, URSS. Rispettando i modi di un cinema parallelo proprietario con l’uso della telecamera a mano. Successivamente, Lars von Trier nel suo “Dogma” ha proceduto allo stesso modo, utilizzando una fotocamera a mano senza treppiede o posizionando luci artificiali» dalla sinossi di Do not August (1991).
8 Questo articolo di Ksenia Ilina, ad esempio, sembra intriso di un’analoga inconsapevolezza – per cui i primi decenni del novecento cinematografico russo sono un periodo caduto nell’oblio e recuperato da Frolov. Oppure basta dare un’occhiata alla pagina IMDb di Last Love (che riporta ben 55 premi vinti e 19 candidature!) e alle recensioni degli utenti (tutte con votazioni di 9/10 e 10/10): «This is a great piece of art,I’ve never seen anything better! I watch and admire such a talent of people! I really liked it!»; «Great love story»; «I watched it a couple of times, it doesn’t bother me, I advise you to watch it»; «The first love is unforgettable 😍 It’s never repeated the whole life,.The first love is eternal love,it happens once in whole life .Super». Un’altra recensione, tra l’altro, riporta parola per parola parte della descrizione del film presente sul sito ufficiale di Frolov.
9 https://iffr.com/en/persons/dmitry-frolov.
10 Tra le molte attività del regista è doveroso menzionare il suo canale YouTube in cui, oltre ai trailer dei suoi film, interviste e conferenze, vengono caricati film indipendenti sconosciuti e non reperibili altrove.
11 Oscar Wilde, Il critico come artista, 1889.
12 Si veda la preziosa intervista al regista a cura di Gleb Szegeda e Ira Dmitrieva: https://seance.ru/articles/dmitry-frolov/.
13 Si veda L’arte del lubok nella Russia prerivoluzionaria.
14 L’”angolo rosso” è una piccola parte delle case russe dedicata al culto delle icone e delle immagini sacre.
15 Dalla descrizione del film.
16 In ordine: Nature is a Sphynx; Clouds melts in the sky…; Though the sultry heat of midday…; Last love (che è anche il titolo di una raccolta); O my prophetic soul!; The final cataclysm. Le poesie sono lette, tra l’altro, da Leonid Mozgovoy, il Čechov di Pietra e il Lenin di Taurus di Aleksandr Sokurov, e attore presente anche nei film di Lopušanskij.


https://vimeo.com/dmitrfrolov/.
http://dmitrfrolov.narod.ru/.

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