Jonathan Glazer, La zona d’interesse (The Zone of Interest), 2023, 106′.
Come si può pensare di ragionar d’altro a partire da Auschwitz? Come si può pensare di discettare di forme di fronte a tale contenuto?1
Quante volte il cinema si è posto il problema dell’irrappresentabilità davanti al tema dell’Olocausto… Pare che portare avanti la causa dell’invisibile sia uno dei modi più efficaci di avere a che fare con immagini che, quando visibili, diventano anche insostenibili. Se non lo diventano è solo perché lo sguardo contemporaneo è irrimediabilmente compromesso da un surplus visuale di violenza (ma non solo) così accentuato da aver anestetizzato ogni rapporto nei confronti di simili oggetti, oggetti che andrebbero invece, con le parole di Georges Didi-Huberman, contemplati, assunti – senza però il filtro pornografico di quest’epoca satura d’immagini. Sì è già parlato, qui, di tentativi compiuti di restituire la presenza di un‘immagine assente, di film costruiti su uno sguardo che resiste alla tentazione di dichiarare un’insostenibile presenza che a volte sembra moralmente doveroso mettere a fuoco (Il figlio di Saul, Dylda). D’altronde, davanti alle cosiddette Foto del Sonderkommando, 4 semplici fotografie mosse, sfocate, decentrate e a stento leggibili, che discorso si può fare che non abbia sapore di un’infantile blaterare?




È evidente che un discorso si può, anzi si deve fare, fosse anche solo per contribuire ad assumere un po’ di più la presenza-assenza di quel male che non finiremo mai di scontare. Ché è sempre meglio rendere presente un’assenza che tacerla.
Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi m odo ci proviamo, è un compito che non possiamo assumerci, che non potremo mai assumerci – anche se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare. È come una risposta da offrire, un debito da saldare nei confronti delle parole e delle immagini che certi deportati hanno strappato alla loro spaventosa esperienza reale. Dunque, non parliamo di inimmaginabile. Le nostre difficoltà non sono nulla al confronto di quelle dei prigionieri che hanno sottratto ai campi questi pochi brandelli di cui noi oggi siamo depositari e il cui peso affligge i nostri sguardi, brandelli più preziosi e meno rassicuranti di qualsiasi opera d ’arte, brandelli strappati a un mondo che li considerava impossibili. Immagini malgrado tutto allora: malgrado l’inferno di Auschwitz, malgrado i rischi corsi. E noi abbiamo il compito di contemplarle, di renderne conto, di assumerle. Immagini malgrado tutto: malgrado la nostra incapacità di guardarle come meriterebbero, malgrado il nostro mondo, un mondo rimpinzato, e quasi soffocato, da merce immaginaria.2
Jonathan Glazer gira il film ancor prima di metterlo in scena: mette in piedi un sistema panottico che possiede lo spazio abitato da Rudolf Höß, comandante del campo di sterminio di Auschwitz, e famiglia. Le cineprese coprono ogni stanza, ogni corridoio, ogni angolo dell’immenso giardino che confina con le mura dell’inferno in Terra. E così il montaggio è già completo: l’inquadratura stacca quando il personaggio esce dal campo visivo e riattacca nella successiva dove un’immobile occhio meccanico è già pronto a fissare questa famigliola che vive tutto sommato una normale vita da aristocratici degli anni ’40. Questa mess’in scena immobile, geometrica, è rafforzata da un lavoro sulla scenografia e fotografia che astrae storicamente la vicenda: non sembra, in effetti, di stare negli anni ’40. È tutto così pallido, chiaro, splendente. È la Germania nazista, quella? Oppure è il dipinto di un Magritte sadico, di un De Chirico col gusto per il design novecentesco? O una di quelle immagini digitali d’anteprima che corredano gli odierni progetti edili?
Sta di fatto che questo lavoro all’astrazione serve un procedimento espressivo molto preciso, e che è la base de La zona d’interesse. Un procedimento che si basa sulla reiterazione di un’intrusione della realtà (l’inferno del campo di concentramento) nel mondo di plastica di questi signori. E così l’accorto lavoro sul sonoro fa sentire un costante brusìo che sfocia a volte nelle urla, a volte nei pianti, altre volte in un cluster musicale à la Charles Ives (o a una versione diluita della famosa Trenodia per le vittime di Hiroshima di Krzysztof Penderecki), ed è stressante al punto che, a volte, perfino i finti ignari non riescono a non chiudere le finestre e serrare le tende.




Altrettanto interessante è l’intrusione visiva in questo spazio così geometricamente organizzato. Non è difficile immaginare che tra le inquadrature che più verranno ricordate di quest’opera c’è quel gioco d’associazione immediata che si forma tra figura di Höß che fuma un sigaro e che si staglia contro un’orizzonte da cui fa capolino una ciminiera fumante dei corpi di centinaia di persone. Non solo questo gioco si limita a più o meno sottili accostamenti di forme suoni, ma arriva in alcuni momenti a presentarsi senza raffinatezze di sorta. Höß fa il bagno coi figlioli nel fiume e si concede un po’ di tempo per pescare, ma qualcosa urta la sua gamba: un osso umano, portato dalla corrente insieme a una macchia giallastra che insozza il corso d’acqua. L’uomo corre verso i figli per portarli immediatamente a casa e far fare loro un bagno al più presto. E si torna alla normalità.
I fumi dei forni (progettati con cura maniacale e presentati in una scena d’un parossismo indicibile da un’equipe di ingegneri che trattano lo sterminio allo stesso modo di come un designer d’aspirapolveri si assicura di ottenere, dal suo prodotto, il massimo dell’efficienza col minimo consumo) rilasciano polveri che si insinuano nei polmoni dei ragazzini, della famigliola che non manca di ripetere che sta cercando di costruire un futuro in quel luogo; i canali di scolo portano resti umani; il cagnolino recupera qualche osso chissà dove; la nonnina si accorge che i rumori che si sentono di notte, fuori dalla finestra, sono un po’ strani; e gli strani odori provenienti da un cielo notturno arrossato dai fuochi degli inceneritori vengono bloccati non appena l’olezzo diventa troppo pungente.




La realtà continua a fare intrusione, dunque, e questi personaggi chiusi nelle loro inquadrature così regolari se ne accorgono come ci si accorge di un virus che sta sviluppandosi nel corpo: a tratti, colpo di tosse dopo colpo di tosse, starnuto dopo starnuto, acciacco dopo acciacco. Allo spettatore invece non sempre è proposto lo stesso trattamento sottopelle, e forse questa è una piccola falla nel sistema de La zona d’interesse. Glazer si rivolge direttamente a chi guarda il film, qua e là, tra metafore fiabesche e contrasti speculari a volte forse troppo urlati in un film che delle urla fa un utilizzo molto raffinato, sottile. Quando la chiamata all’attenzione dello spettatore funziona davvero, però, il proiettile arriva preciso. E non si può essere indifferenti davanti allo schermo che si copre del rosso sangue di una dalia cresciuta grazie al concime di uomini innocenti, in quel “Paradiso” (così chiamano il giardino) che confina con l’Inferno.




Viene in mente anche una realtà “reale”, scevra da intenti comunicativi, narrativi o metaforici (come le didascaliche sequenze agli infrarossi de La zona d’interesse), ovvero i filmini di Eva Braun (girati durante gli ultimi 4 anni del conflitto) che gli US National Archive hanno reso disponibili sul loro canale YouTube qualche anno fa: una decina di video di una trentina di minuti in cui si può vede la famigliola nazista aristocratica per eccellenza (quella di Hitler) passare momenti di onesta convivialità. Si danza, si scherza, si gioca con gli animali, si sta insieme. Non c’è alcun fuori campo narrativo a fare da contraltare metaforico a quelle immagini, nessun gioco di specchi, nessuna costruzione estetica attorno. Guardiamo sapendo, e questo basta a farne delle immagini di puro terrore. Altro contrasto ironico: questi filmini sono muti, a differenza di un film che fa del sonoro una delle proprie colonne portanti (e che è muto nell’unico momento in cui in scena viene suonata davvero della musica). E fa strano dare loro un’occhiata dopo la visione de La zona d’interesse – pare di sentire le voci…




Non resta che un’ultima e decisiva incursione della realtà, nel corpo e nello sguardo del ligio Höß, fresco di promozione e richiamato in Germania. Dopo un ricevimento chiama al telefono sua moglie, le dice di aver saputo che la deportazione di massa degli ebrei ungheresi a Auschwitz è chiamata da Heinrich Himmler “Operazione Höß”; ne è contento. «Sono così felice per te», ribatte lei. «Grazie Mutzi. È anche il tuo nome». «Chi c’era?»; «A dire il vero non stavo prestando molta attenzione. Ero troppo occupato a pensare a come uccidere tutti nella stanza col gas. Molto difficile, logisticamente, a causa del soffitto alto.»
Forse il corpo non ce la fa più. E allora Höß inizia a scendere le scale e, dopo ogni rampa, un conato di vomito lo blocca. Vede in fondo al corridoio una porta con un foro, e dietro il foro la Storia, la realtà “reale”. Sono le manutentrici del Memoriale di Auschwitz che aprono le porte delle camere a gas, dei forni e dei locali che devono essere puliti. Il vero scarto che Glazer ha coltivato per tutto il film esplode nell’immagine del lavoro sacrosanto di queste donne che con cura puliscono gli attrezzi del più grande male della storia dell’umanità. Come i Sonderkommando pulivano le camere a gas dai corpi dei loro fratelli, sopravvivendo solo grazie all’alcol e alla cieca volontà di vivere per la sola speranza di far uscire da quell’inferno anche solo un’immagine, malgrado tutto, così questi impiegati puliscono gli strumenti dello sterminio, le teche della Memoria, ché solo continuando a lucidarle si può sperare che essa non perisca. Solo favorendone la visibilità, l’abitabilità, si può continuare ad assumere quell’inimmaginabile.
Loro, come Höß, sono indifferenti al passato che alberga nella stoffa delle migliaia di scarpe e nel metallo dei forni. Loro devono esserlo, per continuare a offrire tutti i giorni un servizio alla comunità e al Memoriale. Il comandante invece vuole esserlo. Si mette il berretto e scende giù, a compiere la Storia.




Bibliografia
1 Michele Guerra, Il limite dello sguardo. Oltre i confini dell’immagine, Varese 2020, p. 10.
2 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Milano 2005, p. 15


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