Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile, 1954, 112′.
Dopo aver parlato di Nodo alla gola (Rope, 1948) torniamo dunque su un film di Alfred Hitchcock. Se “Nodo alla gola” aveva un interesse maggiormente narrativo-scenografico, questo “La finestra sul cortile” tocca temi di ben più ampia portata, senza venir meno a quella strabiliante capacità tecnica che, come nel film del 1948, è asservita interamente al tipo di storia che Hitchcock vuole inscenare.
Mentre in Nodo alla gola la macchina da presa diventa uno strumento di scansione del tempo e immersione nella scena, tesa attraverso l’utilizzo del tempo reale nel quale si svolgono gli eventi, che accentua l’ansia delle menti dei protagonisti, in “La finestra sul cortile” essa diventa strumento attraverso il quale il regista parla della cinepresa stessa.
La macchina da presa diventa dunque l’occhio di Jeff nonché dello spettatore, che, in quest’elogio della soggettiva, si troverà a sentire le stesse paure del protagonista, ad assecondare il suo voyeurismo, a sentirsi in colpa per questo.
Il protagonista incarna quindi lo spettatore cinematografico, in una grande rappresentazione meta-cinematografica che viene espressa in ogni singolo frame del film
Siamo una bella razza di guardoni
Stella, la badante di Jeff, esemplifica un concetto essenziale del film con una battuta breve, ma concisa. Il “guardone” è l’elemento imprescindibile per la produzione cinematografica. Un film non esiste senza un spettatore, proprio come la tragedia consumatasi in uno degli appartamenti di quel palazzo non sarebbe esistita senza la presenza di un testimone. Tragedia che vediamo cinematograficamente attraverso la fotocamera del protagonista, con i suoi obiettivi e i suoi zoom, il suo focus, il suo movimento. Attraverso una scenografia estremamente dettagliata e ragionata, Hitchcock ci mostra delle scene che si sviluppano oltre più finestre, che fungono di fatto da schermi cinematografici(e simulano anche il montaggio, se vogliamo) e da diverse sequenze della stessa scena, ciò che lo spettatore fa con i film: guarda una sequenza di immagini attraverso uno schermo(la finestra). Il regista pertanto deve gestire uno spazio molto piccolo nel quale muoversi, a causa dell’impossibilità dello stesso Jeff di spostarsi. Come al solito Hitchcock dimostra di poter fare veramente qualsiasi cosa con la macchina da presa, senza sembrare mai banale e noioso nelle riprese, che, asservite completamente alla storia, non risultano mai tediose e ripetitive. Il personaggio è fermo, ma il mondo attorno a lui si muove.
Quello che vede Jeff non è solo l’attuarsi di un crudele omicidio, ma il diramarsi di vari eventi legati a diversi momenti della vita di coppia, che vengono mostrati attraverso i gesti dei diversi inquilini che incarnano i vari momenti delle relazioni sentimentali. Si passa quindi da una ragazza che non sa scegliere tra i suoi tanti ammiratori ad una coppia di neo-sposi alle prese con i primi screzi, per poi arrivare a chi dona amore ad un cane come se fosse suo figlio, fino alla visione tragica del rapporto.
E i problemi della coppia e delle relazioni sentimentali sono in primis presenti nel rapporto tra Jeff e Lisa: lei innamorata e desiderosa di sposarsi. Lui, amante dell’avventura e concentrato sul suo lavoro. Il rapporto tra i due rimarrà infatti, fino a poco prima della fine della pellicola, molto traballante, e vede contrapporsi due stili di vita e due modi diversi di vedere il mondo. Hitchcock non manca comunque di sottolineare come l’amore possa superare e mettere insieme anche due persone dal carattere e dalle personalità diverse(la scena finale è emblematica e pregna dello humor del regista). Da una parte abbiamo il calore femminile e seducente di lei, dall’altra la freddezza e il disinteresse da parte di lui.
Questo rapporto avrà poi un’essenziale importanza nello sviluppo e nella risoluzione della storia, coreografata magistralmente da un autore che ha fatto della sua abilità nell’organizzare uno dei suoi tratti distintivi.
Mi rendo conto, nello scrivere, che cercare di trattare tutti gli spunti che “La finestra sul cortile” offre, nell’ambito sentimentale/sociale e soprattutto meta-cinematografico, richiederebbe una grandissima quantità di caratteri che vengono fuori nella mia testa senza sosta. Cercherò allora di dedicare la fine di questo articolo ad un paragrafo, quanto più breve e conciso, al fine di dare io stesso degli spunti attraverso i quali la visione del film possa fornirne altri – spero – a voi.
La finestra sul cortile è, in conclusione, un film che, attraverso la mano di un maestro quale Alfred Hitchcock, offre allo spettatore una storia alla base semplicissima, che si eleva a maestosa quando viene messa in scena attraverso una regia che, esaltando all’ennesima potenza la soggettiva e il punto di vista del protagonista/spettatore, crea una marea di metafore meta-cinematografiche(affermate dallo stesso Hitchcock o abbandonate alla sensibilità dello spettatore) che vanno dal voyeurismo alla funzione dello spettatore rispetto allo spettacolo. Un’interpretazione grandiosa di un grandioso James Stewart, accompagnato da personaggi secondari mai inutili sebbene poco trattati, viene incorniciata da una fotografia che non ha bisogno di argomentazioni: provare per credere.
Hitchcock con questo film riflette sul cinema attraverso strumenti intrinseci alla forma d’arte stessa, elevando il genere a qualcosa che, col passare dei minuti, lo trascende allo stesso tempo lo esalta.
Concludo con un “botta e risposta” tra un giornalista detrattore di Hitchcock e Francois Truffaut:
–Le piace “La finestra sul cortile” perché, non essendo di casa a New York, non conosce il Greenwich Village.
-“La finestra sul cortile” non è un film sul Village; è semplicemente un film sul cinema, ed io conosco il cinema.
E aggiungo ciò che Eric Rohmer e Claude Chabrol scrissero di lui:
Uno dei più grandi inventori di forme di tutta la storia del cinema. Solo, forse, Murnau ed Ejzenstejn possono, su questo argomento, sostenere il paragone con lui. La forma qui non abbellisce il contenuto, lo crea.
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