Anna dei miracoli: un film di gesti.

SCHEDA FILM

  • TITOLO: Anna dei miracoli (The miracle worker)
  • DATA DI USCITA: 1962
  • REGIA: Arthur Penn
  • SCENEGGIATURA: William Gibson
  • DURATA: 107′
  • TRAMA: 

Annie Sullivan è assunta dai coniugi Keller per rieducare la piccola Helen, cieca e sordomuta dalla nascita. L’insegnante riesce a far passare la ribelle Helen dallo stato “animale” a quello “umano”, e a fare di lei “sua” figlia, nel senso più profondo della parola.

Che film può essere Anna dei miracoli, se non un film di gesti? Un film delicato e allo stesso tempo violento, che, come Annie, comunica attraverso il linguaggio del corpo della macchina da presa, guida dello spettatore all’interno di una vicenda che non perde mai il focus sui due personaggi.
Cos’è che differenzia il cinema dal teatro? Moltissime cose, prenderò in esame una sola  di queste: il movimento di macchina.
È grazie al movimento di macchina che il film diventa un tutt’uno con la sua storia e non si limita ad una semplice rappresentazione di ciò che accade in uno o più ambienti. La macchina da presa si muove confusa come Helen, “colpisce” delle coperte stese in giardino proprio come lei; barcolla come lei, per poi fermarsi totalmente all’arrivo di Annie. La stabilità delle due è la stabilità della macchina da presa. La magnifica scena della “lotta” al tavolo (di una durata considerevole) deve essere letteralmente studiata a scuola di regia per imparare anche come girare una scena action (si scherza… Forse): la cinepresa segue i due personaggi in lunghi piani sequenza, schizzando da una parte all’altra dello schermo, tentando di tenere d’occhio le due da una prospettiva sempre frontale, per fermarsi bruscamente e ripartire subito dopo (nota di merito anche alle due attrici principali, capaci di tenere in piedi l’intero film con la sola forza dei gesti e del linguaggio del corpo, in questo loro balletto-duello continuo).
Così il film diventa un racconto di predominio del gesto sulla parola, di una percezione fisica che si lega al significato delle cose dando successivamente loro un nome. Proprio grazie a questo Annie insegna ad Helen i concetti di “significato” e “significante”, attraverso una storia che non vuole commuovere o far provare compassione facendo leva sulla tragica situazione della bambina e che proprio per questo colpisce emotivamente.

Penn gestisce quindi una pellicola che fa della sua scorrevolezza e qualità visiva il suo punto forte, attraverso dissolvenze incrociate e montaggio fluido e chiaro che danno l’impressione che la durata del film si aggiri attorno ai 20 minuti. La chiarezza espositiva infatti è essenziale per rendere graduale seppur mai lento il procedere degli avvenimenti i quali, oltre a raccontare la storia di una ragazza affetta da una grave malattia, raccontano quelli di una famiglia alle prese con questo problema, di un’insegnante che vede nella protagonista ciò che – in parte – era stata lei stessa da piccola; di un processo di apprendimento che fa crescere non solo Helen, ma anche tutta la sua famiglia e la stessa Annie.

Il contrasto tra la dolcezza di una madre e il rigore di un’insegnante cosciente dei suoi mezzi è il fulcro attraverso il quale tutto viene temperato e riportato alle giuste misure. Entrambe le parti imparano a gestire il loro rapporto con Helen la quale, a sua volta, placa pian piano le sue abitudini molto “animalesche”. La bambina però è anche al centro di qualcosa di più grande, di un contrasto fatto da una parte “ideale” e una “materiale“; da una parte che cocciutamente si impegna per raggiungere uno scopo e da una parte che si autoillude di non poter far nulla al solo scopo di non sforzarsi. Annie quindi diventa una figura che stravolge la vita di una famiglia con poca volontà ma con tanto amore, mostrando a tutti come l’amore possa essere incanalato per diventare costanza e impegno.

In conclusione, ho apprezzato molto la scelta di Arthur Penn di non piegarsi alle coordinate teatrali insite – suppongo – nel testo originale (scritto da William Gibson – sceneggiatore anche del film – che ha attinto direttamente dall’autobiografia di Helen Keller), serrando il montaggio e rendendo “cinematografico” questo prodotto quanto più possibile. L’arte cinematografica diventa quindi in questo caso valorizzante della storia che viene raccontata e non diventa succube di essa; in altre parole, riprendendo ciò che ho scritto all’inizio della recensione (“Cos’è che differenzia il cinema dal teatro?”), la capacità del regista di sfruttare i mezzi propri del cinema per girare un prodotto cinematografico (cosa più rara di quanto si possa pensare) rende Anna dei miracoli un grande film, da vedere e rivedere; da studiare e soprattutto da vivere.

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