Szürkület (1990, 105′) – György Fehér.
Alla luce della visione di Szürkület non stupisce ritrovare il nome di György Fehér tra i produttori di Sátántangó (1994, 450′) – Béla Tarr e tra i dialoghisti de Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000, 145′), come non stupisce leggere il nome di Tarr nei titoli di coda dell’opera in qualità di consulente.
Lungi da chi scrive la volontà di strutturare un articolo attraverso un paradigma del tipo Fehér-Tarr, è importante premettere che chi ha avuto a che fare col cinema del regista de L’uomo di Londra (A londoni férfi, 2007, 139′) proverà una certa sensazione di calore domestico nelle riprese di questo film: la forma è quella, diverse le implicazioni e le motivazioni che ne muovono la formulazione.
È il piano sequenza che scandisce il movimento del mondo di Szürkület, e si sottolinea che volontariamente si è fatto riferimento al mondo e non ai corpi, alle figure che si muovono all’interno di questo spaccato ungherese fortemente granuloso e dalla solenne colonna sonora, ripresa, tra l’altro, da Nosferatu: Il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979, 107′) – Werner Herzog: la macchina da presa, infatti, si muove attorno ai personaggi, scruta i loro volti, segue i loro cammini e pazienta davanti ai loro monologhi. Una macchina da presa che pone un perno sugli oggetti e muove tutto il resto, staccandosi solo per adempiere al suo ruolo di disvelatrice della realtà (cinematografica): il microcosmo di Fehér vive al di là del quadro, esiste prima ed esiste dopo ed in virtù di questo il regista sfrutta il movimento per mostrare qualcosa il quale, all’inizio del piano sequenza, era già lì. Così facendo è possibile mettere in atto un inganno della percezione dello spettatore (nonché un vero e proprio impedimento alla sua vista), con l’”apparizione”, per esempio, di un oggetto in primo piano: un oggetto, si noti, che è ravvicinato solo nel momento in cui il piano sequenza arriva a disvelarlo e a realizzarlo come vicino alla macchina da presa.
Un movimento che modula fittizie forme e spazi dunque, attraverso, ancora una volta, lo “spostamento” di ciò che sta attorno all’oggetto e non dell’oggetto stesso.
Se da una parte, la cinepresa ultraterrena di György Fehér (nel senso di una mdp che si solleva e si muove secondo criteri e libertà non propri dell’essere umano) vede, scompone e controlla le forme del suo microcosmo, non riesce, dall’altra, ad entrare nella sostanza di esse. La ricerca dell’assassino di una bimba da parte dell’investigatore diventa una forma di ossessione che pare abbandonare il fine stesso della ricerca: la missione dell’uomo (addirittura svincolato, ad un certo punto, dai suoi superiori) non è più quella di risolvere un caso per fare giustizia ma per essere in pace con sé stesso. La feroce caccia all’assassino diventa qualcosa di personale, si allontana da un classico impianto thriller e diventa più astratto, metafisico.
Fehér non sbroglia “quer pasticciaccio brutto”[1] ma lascia che il suo cinema si addentri nelle zone più oscure dell’animo del suo protagonista (l’investigatore), preferendo costruire una narrazione seguente l’uomo nel suo percorso interiore piuttosto che investigativo; percorso che, appunto, non avrà termine, non raggiungerà il suo scopo.
Nell’opera metafisica di Fehér si distingue quindi uno stile che è memore (e consapevole) di quello messo a punto da Tarr nel suo Perdizione (Kárhozat, 1988, 120′) ma che porta ad una solennità del tutto diversa, carica di un’aura trascendentale che certo non è propria del regista di Sátántangó; essa si manifesta, in Szürkület, nella tendenza a guardare le cose da lontano, nello sfruttare lo scorrere del tempo e dello spazio al fine della modulazione e del disvelamento. Egli ricorre senza problemi ad “artificiosi artifici” cinematografici per raggiungere precisi scopi, quale la rotazione attorno a due figure durante un dialogo, con il risultato di estrapolarle ed isolarle dal contesto nel quale sono calate, oppure la messa a fuoco dello sfondo a discapito del primo piano, nell’ intento di emulare il punto di vista del soggetto più vicino senza però ad esso sostituirsi (la macchina da presa può gestire ciò che c’è fuori ma, ancora una volta, non ciò che c’è dentro).
E dunque l’autore abbandona la sua storia lasciando il suo film e il suo protagonista a vagare nei meravigliosi terreni ungheresi con la consapevolezza che «sono troppi gli uomini di quel tipo che soltanto per caso non uccidono» (questo è ciò che viene detto all’investigatore nel momento in cui viene sollevato dal proprio incarico) e che il luogo realmente oscuro non è all’esterno ma all’interno. Non resta all’uomo che barcollare nella foresta alla ricerca di non si sa cosa.
Riferimenti bibliografici:
[1] CARLO EMILIO GADDA, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
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