Valdediós

Elena Duque, Valdediós, 2019, 3′.



L’edizione 2020 del Festival des cinémas différents et expérimentaux de Paris organizzata dal Collectif Jeune Cinéma ha per tema i capricci del linguaggio, i suoi imprevisti, la «riappropriazione del linguaggio» da parte di chi il linguaggio lo stuzzica, lo smembra e lo ricompone secondo logiche illogiche. La competizione della 22esima edizione (7-18 ottobre) tenta dunque di proporre un’orchestra di voci da quella comunità emarginata del cinema che ha ancora qualcosa da dire, in dialetti e cacoletti (dialectes, cacolectes).


Più di un anno e mezzo fa si è scritto, in Excursus Laterale, di Scherzo (2015, 5′) di Fabio Scacchioli e Vincenzo Core. Si diceva: «il duo Scacchioli/Core gira uno scherzo [nell’accezione musicale del termine] cinematografico: vivace, movimentato, intenso. Tutto nasce da forme embrionali, microscopiche, non chiaramente definite: una genesi dell’uomo ma anche una genesi del cinema, che passa dalla rappresentazione serena e idealmente perfetta delle opere hollywoodiane fino alle conquiste dello spazio. […] Ecco però che dopo qualche minuto dall’inizio viene fuori il vero scherzo: l’uomo.» Quattro anni dopo Valdediós riprende la forma-danza con una bourrée (la bourrée, come lo scherzo, è un componimento arguto e movimentato). In Scherzo il brano fondante del film è il II movimento della Sinfonia n. 9 di Ludwig Van Beethoven, in Valdediós il IV movimento della Suite per liuto in Mi minore di Johann Sebastian Bach.

Partendo dalle differenze tra le forme di questi due brani è possibile tracciare una linea che collega le due opere cinematografiche e che allo stesso tempo ne mette in risalto distanze e implicazioni. Due danze, dunque, entrambe vivaci e ritmate: la prima, quella di Beethoven, è palesemente volta al gioco, addirittura la si può considerare una provocazione musicale, così come il film di Scacchioli/Core lo è nei confronti del cinema e dell’immagine dell’umanità che il mezzo è capace di proporre1; la seconda, invece, quella di Bach, è un esempio di limpida semplicità contrappuntistica, gioviale e contenuta.

Valdediós, Valle di Dio; un monastero del XIII secolo; una strada; un cavallo; immagini che sono porte per il cosmo. C’è un che di religioso nel film, al contrario del risolino sarcastico delle immagini di Scherzo. Attraverso una pittura che si sovrappone alle riprese, Elena Duque riesce a svelare qualcosa che sta dietro/dentro di esse, come se le cose del mondo potessero essere stuzzicate dai pennelli e dai colori per liberare qualcosa di latente, un universo intero di altre immagini, caotico – così l’universo astratto di Scacchioli/Core fatto di divi hollywoodiani e stelle ed embrioni e cellule e astronauti – e compresso in una finestra o nella curva di un rovo controluce.
L’astrazione di Valdediós è medievaleggiante. L’artista medievale guarda al cielo sempre da terra, cerca il cosmo nella natura e il suo avvicinamento alla divinità è sempre dato dalla buona riuscita del lavoro artigianale, della sua compiutezza nella vita terrena. Le fantasie decorative dunque partono sempre da un’intuizione visiva offerta dalla valle, dalla strada, dal cavallo, e ne estrapolano un nuovo aspetto.

Si pensi – riducendo ai minimi termini il l’esempio – ala struttura di Scherzo come a quella di un brano pianistico che prevede un accompagnamento da suonare con la mano sinistra e una melodia da suonare con la destra. La prima mano definisce il tono del brano (il II movimento della sinfonia di Beethoven), la seconda lo esprime concretamente (le immagini d’archivio che compongono il film). Questa coesione è intuitivamente gradevole, coerente, naturalmente emotiva, l’accumulo di immagini si eccita con l’eccitarsi del brano, la contemporaneità degli sviluppi si risolve in una risonanza espressiva memorabile.
Si pensi ora alla struttura di Valdediós come a quella di un brano pianistico il quale prevede che le due mani suonino due melodie indipendenti (le riprese e la pittura sulla pellicola); la loro sovrapposizione genera la polifonia, una “nuova” linea melodica, e così non c’è una corrispondenza perfetta tra le due mani ma un’intesa, l’una ci dice qualcosa di più sull’altra e ne esprime un potenziale espressivo virtuale. La polifonia, non a caso, si rompe quando viene meno il rapporto rigoroso che intercorre tra le due voci, quando la regista dà inizio ad un canone perpetuo sovrapponendo una seconda registrazione del brano di Bach a quella già in corso. L’intesa melodica viene meno e nasce il caos: è in questo momento che a incrinarsi è il vincolo naturalistico e il muoversi da un polo all’altro dell’universo diventa unica cacopolifonia possibile. Le immagini più disparate si accavallano, il colore fluisce sull’aggrovigliarsi di colori, linee, fotografie e riprese di ogni genere, dalla Terra al cielo e ritorno in un millesimo di secondo.

Forse Elena Duque arriva in ritardo rispetto a Scacchioli/Core. Forse invece c’è una diversa tensione, di calma, di messa in ordine di quel caos che si cela dietro ogni forma e che l’artista sempre svela prima di creare. Oppure ciò che fa pensare che le due opere siano affini e magari ridondanti è una certa consapevolezza di quanto un’immagine artistica sia sempre il risultato e la causa di un milione di altre immagini, e di quanto lo stridore di eventi frizionanti sia il risultato fisiologico di un sovraccarico a cui gli uomini sono sottoposti quotidianamente. I due italiani lasciano fluire la caterva di oggetti filmati e si accompagnano al loro disordine, ci scherzano su. Nel loro film l’uomo, «il vero scherzo, il tassello sbilenco del cosmo, […] addirittura applaude sé stesso in veste di pubblico2»; l’autrice di Valdediós, invece, rimane ancora incuriosita e ammirata dalle cose quotidiane con la gioiosa ingenuità del bambino (e del fedele), nell’arco di un ramo di spine vede ancora una varco che si apre e la porta altrove.


Bibliografia

1 «Siamo qui di fronte a uno scherzo di cattivo gusto. E pessimo carattere. Dal momento che pretende la libertà dovuta al giullare e insieme d’esser preso terribilmente sul serio. Scherzate con questo film, addolcitelo, o v’inchioderà gli occhi.» dal sito del Torino Film Festival.
2 Dall’articolo sul film.

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