Šarūnas Bartas, At Dusk (Sutemose), 2019, 128′
Che questo sia un articolo a cavallo tra un post scriptum e un errata corrige di uno scritto di più di 2 anni fa, Šarūnas Bartas alla ricerca della pace: elaborazione di un lutto e perdita dell’autonomia dell’immagine; anche l’assumere di una nuova posizione nei confronti dell’operazione che Bartas andava costruendo (rincorrendo?), al di là degli esiti artistici del film. Perché i successivi Frost (2017, 132′) e At Dusk (Sutemose, 2019, 128′) hanno messo in prospettiva Peace to us in our dreams (2015, 107′), ne hanno esaltato debolezze e pregi in quanto esempi più compiuti – e non per questo migliori – di quell’attitudine che si stava manifestando timidamente e forse anche superficialmente nel 2015.
Si scavalchi l’infelice Frost per il momento, che al contrario di Peace to us in our dreams sopprime la timidezza con un’esagerazione formale insostenibile perché non retta da un fondamento teorico che la giustifichi, e si guardi all’ultima opera del lituano: At dusk.
Pare che Bartas abbia trovato un modo di far avvicinare i suoi personaggi, di farli dialogare, di creare un reticolo di sguardi e gesti che ricompongono uno spazio narrativo figurativamente e concettualmente coerente. Non più solo occhi persi nel vuoto di persone che, seppur in uno stesso (e a volte ristretto) ambiente, non trovano contatto neppure nell’artificio tecnico del montaggio, ma dei veri e propri percorsi di sguardo che si risolvono più volte in campi larghi che “fanno il punto” della situazione; e, viceversa, campi larghi che presentano un’ambiente che poi viene sezionato nei tipici primi piani del regista i quali, però, non arrivano mai realmente a deterritorializzare1 i volti (o i volti degli oggetti). In questo senso si è più vicini alla concezione dello spazio di Bresson che a quella di Bergman.
Sembra che la chiave di volta di questi neonati contatti d’animi sia la natura fondamentalmente narrativa di questi ultimi 2 film. Ancor di più, in At dusk la vicenda è addirittura di carattere storico (Lituania, 1948), ancorata a circostanze e figure più definite (nonostante il focus di Bartas sia, al solito, sul tema più intimo della famiglia). Lo spazio bartasiano è qui più facilmente abitabile2, ci si posiziona agevolmente tra le cause e gli effetti che portano avanti la narrazione. Ne scaturisce una pellicola molto più compatta sia dell’incerto Peace to us in our dreams che del pedante Frost.
Il passaggio a questo approccio mette direttamente Bartas in relazione con precedenti illustri che hanno affrontato gli stessi temi all’interno di un cinema prevalentemente narrativo – primo su tutti Va’ e vedi (1985, 142′) di Elem Klimov, il quale viene forse rievocato nell’ultimo frangente del film –, mettendo in mostra una poca intensità espressiva nei confronti di un argomento come quello della guerra vista dal punto di vista di un ragazzo, senza contare il fatto che la scelta di tessere un racconto piano e canonico evidenzi alcune brutture e inadeguatezze di carattere logico, quali la presenza di alcuni dialoghi non credibili sulla bocca di un gruppo di uomini di ceto sociale molto umile e quasi certamente non istruiti e un paio di sequenze che, appunto, trattano la connettività data dal montaggio alla vecchia maniera bartasiana di un cinema non narrativo3. Il fatto stesso che certe incongruenze siano percepite è piuttosto allarmante e va a detrimento di un atmosfera realistica con la quale il regista sembra non essere a suo agio. Si assite ad un deformalizzarsi del suo cinema – che non è più adeguato all’apertura alla parola – in favore di una compattezza stilistica certamente più efficace ai fini del racconto che va tracciando4. L’”efficacia” di cui si parla però è spesso “piattezza simbolica” che ha poco di cinematografico men che meno d’artistico (si noti anche la presenza della canonica – per quanto “anomala” – colonna sonora extradiegetica). E così alla domanda del protagonista «Non hai con te un’arma?» il regista mostra la mano del partigiano la quale stringe un proiettile e che, una volta aperto il palmo, si rivela essere un innesto per una piccola matita, con tanto di risposta: «È questa la mia arma».
Le immagini di At dusk sono più intense di quelle di Peace to us in our dreams, i volti significano qualcosa che è oltre la parola (al contrario invece di quanto si evidenziava nell’articolo citato in apertura), ma ecco lo scarto: pare che questa efficacia sia da attribuire ad una programmazione più stringente del testo filmico nei confronti dello spettatore, ad una direzione dello sguardo che si fa anche pista pre-fabbricata per il pensiero. Da una parte quindi la forzatura ad assecondare il flusso di Peace to us in our dreams, dall’altra il palese invito a seguire la strada “giusta”. Che la compattezza stilistica di questo suo ultimo film permetta di afferrare con più sicurezza l’occhio interiore dell’autore è indubbio, che sia più familiare negli sviluppi e nelle soluzioni è palese (sul fatto che la Storia sia uno sfondo troppo vago per essere influente o quantomeno accettabile non ci si soffermerà) e che sia privo di vie di fuga dal senso, di strade secondarie percorribili, di varchi ricavabili, è una triste constatazione.
Il punto è che, a distanza di tempo, si accetta di più l’ingenua (perché troppo sofferente) natura dello zoppicante Peace to us in our dreams che quella affettata di At dusk. Se l’elaborazione del lutto di Bartas ha coinciso – o è stata causa – con l’apertura nei confronti dell’altro, della nascita della consapevolezza che le parole «ci aiutano a parlare di noi stessi, ci aiutano a sfogarci e ad ascoltare cosa gli altri hanno da dire»5, generando un mix non gradevole ma lenitivo, la più razionale organizzazione del discorso cinematografico che il regista segue da alcuni anni a questa parte lo ha condotto verso un’elaborazione piuttosto piatta che fa di uno stile una maniera. Non è interessante la rembrandtiana mess’in scena o la lirica contemplazione della natura se la prima si cura di tracciare nel buio una serie sempre rinnovata di volti eppure sempre più poveri di intensità e alla seconda è attribuito un ruolo smaccatamente metaforico (che culmina nella sciagurata metafora finale prigione-finestra-uccelli in volo-libertà).
È più interessante, in fin dei conti, assistere ad una sincera seppur palese difficoltà di creare da parte di un artista zavorrato dal dolore della perdita, che ad un lavoro che generifica il termine “film d’autore”. Del primo rimane ancora impresso un segno inconfondibile del lavoro del regista, il volto, anzi, un triplice volto, quello dello stesso Bartas che si specchia in quello della giovane Ina-Marija Bartaite, così simile a sua madre Yekaterina Golubeva, suo simulacro; del secondo rimane una storia, come tante altre.
Bibliografia
1 «Se è vero che l’immagine di cinema è sempre deterritorializzata, c’è dunque una deterritorializzazione molto particolare propria dell’immagine-affezione» in Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Torino 2016, p. 120. e «L’espressione di un volto isolato è chiusa in sé stessa e perfettamente comprensibile: non v’è bisogno di pensare a null’altro nello spazio e nel tempo. Non importa che un momento prima abbiamo visto quel volto come parte integrante di un corpo. Vedendolo isolato, ci troviamo improvvisamente soli, a quattr’occhi, con quel volto. Non importa che prima l’abbiamo visto in un grande ambiente: vedendolo isolato, dimentichiamo l’ambiente che lo circondava. L’espressione del volto, e il significato di tale espressione, non hanno alcun rapporto o legame con lo spazio. Dinnanzi a un volto isolato non ci sentiamo nello spazio. Non esiste più, in noi, la percezione dello spazio. Per noi esiste una dimensione di altro genere» in Bela Balázs, Il film, Torino 2002, p. 56.
2 Sul concetto di spazio abitabile si veda Roger Odin, Della Finzione, Milano 2004 e Paul Ricœur, Tempo e racconto, Milano 1994 da cui Odin ha ricavato il termine.
3 Un esempio su tutti: il giovane Unte, il protagonista del film, coglie in flagrante suo padre che amoreggia con la serva. Lo sgomento di questi ultimi è narrativamente illogico in quanto prima dell’entrata in scena Unte apre un’altra porta poco distante da quella della stanza (con un rumorosissimo cigolio) e, ovviamente, fa molto rumore con gli scarponi sul pavimento in legno.
4 Fa però una giusta osservazione Miguel Muñoz Garnica quando scrive su El antepenúltimo mohicano: «La tendencia al recital algo literario del guion, de nuevo un riesgo de excesivo rigor autoral, se equilibra con la honestidad irreductible de su semblante iluminado y sostenido ante la cámara».
5 da Peace to us in our dreams
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