Men – oppure: il fallace processo di generificazione dell’”elevated horror”

Alex Garland, Men, 2022, 100′.


I film di genere sono film prodotti successivamente alla generale identificazione e consacrazione di un genere attraverso il processo di sostantivazione, nel periodo di tempo limitato in cui materiali e strutture testuali portano gli spettatori a interpretare i film non come entità separate ma in funzione delle aspettative e in opposizione alle norme del genere.1

Il fondamentale testo di Rick Altman Film/Genere, in apertura, propone un’analisi sulla stabilità dei generi cinematografici basandosi sul rapporto tra aggettivo e sostantivo (si ricordi che in inglese l’aggettivo viene posto prima del sostantivo al quale si riferisce). I generi “puri” (sostantivi) sono affiancati a degli aggettivi che, nel corso del tempo (per vari motivi, da quelli culturali a quelli economici), diventano sostantivi a loro volta, creando un distaccamento dal genere d’origine e assumendo una propria autonomia. Questo processo di “generificazione” si può ripetere infinite volte, associando al neonato sostantivo un altro aggettivo che poi diventerà sostantivo, e così via. Ecco che il sostantivo musical nasce come aggettivo riferito a generi-sostantivi: commedia musicale (musical comedy), dramma musicale (musical drama), film sentimentale musicale (musical romance), farsa musicale (musical farce).

La combinazione di certi termini di solito nasce dalla produzione e dalla critica: la prima tenta di abbracciare un bacino d’utenza maggiore (con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista spettatoriale, dell’utente come parte integrante di questo meccanismo che in fondo è tripartito); la seconda ricontestualizza storicamente e teoricamente questi termini, li integra, tenta di ridurne o aumentarne la distanza, ecc. ecc. Nascono così, ad esempio, film associati a un particolare studio cinematografico, sulla base di modelli che assicurano alle case di produzione dei successi «facilmente replicabili». La storia dei generi quindi va avanti secondo questi cicli (così li chiama Altman): «I nuovi cicli sono solitamente il prodotto dell’associazione fra un nuovo tipo di materiale o di approccio e dei generi già esistenti»2. E, aggiunge l’autore, «quando i cicli diventano generi, le attribuzioni aggettivali di genere diventano di natura sostantivale»3. Tale processo è ovviamente «strettamente legato al bisogno capitalista di differenziare il prodotto»4.

Non è questa la sede per ripercorrere tutti i processi tramite i quali Altman analizza e spiega il ciclo di vita dei generi (per questo rimando al suo libro). Trovo interessante però partire da qui per aggiungere una sotto-categoria ai tre protagonisti di questo processo (produzione, critica, pubblico): nella nostra epoca – e ricordo che il libro di Altman è uscito per la prima volta nel 1999 – il soggeto “critica” è formato da un agglomerato di figure che non sono critici “di mestiere” ma sono delle persone che hanno un certo grado di competenza in materia (con variazioni considerevoli…) e un largo bacino d’utenza attorno al proprio spazio (canale YouTube, profilo Instagram, blog ecc.); c’è da dire inoltre che questa sotto-categoria di critici e la più ampia categoria degli spettatori spesso si mescolano e si confondono nell’incommensurabile numero di recensioni, trafiletti, post sui social, pareri estemporanei e chi più ne ha più ne metta. Questa confusione avviene non perché il saggio del critico sia equivalente al commento di due righe dell’utente che si limita a manifestare il suo indice di gradimento dell’opera; avviene perché “l’influenza” esercitata sullo spettatore/lettore proviene da una quantità enorme di fonti e direzioni, qualunque sia il loro grado di “intensità”. E così il tweet di un utente può diventare virale e avere più impatto di un brillante saggio breve dell’autore Tal dei tali.

La relazione tra questa lunga introduzione (per nulla esauriente) e Men di Alex Garland sta in questo “nuovo” genere che prende il nome di elevated horror (horror elevato) o art horror (horror artistico – non lo chiamo “horror d’arte” per mantenere inalterato il rapporto sostantivo-aggettivo). Un termine odioso, a essere onesti, e quantomai superfluo (in bibliografia qualche esempio tra i numerosi articoli che si sono espressi a riguardo). Leggendolo nei termini di Altman viene fuori infatti una falla nel sistema di generificazione e di sostantivazione: se da musical(aggettivo) comedy(sostantivo) si ottiene musical(sostantivo), da elevated(aggettivo) horror(sostantivo) dovremmo forse ottenere il genere elevated? Oppure da art horror/arthouse horror dovremmo ottenere il genere art o arthouse? Qui si sta confondendo il contenuto con il contenitore, si sta utilizzando il termine “arte” come se fosse un genere. Dunque se un film horror non appartiene al genere “arte” non è un’opera d’arte? E se ad esso appartiene allora diventa automaticamente un’opera d’arte? Oppure forse esistono opere d’arte del genere “arte” e opere del genere “arte” che non sono opere d’arte? Chiaramente no, e infatti gli autori che si sono espressi contro l’utilizzo del termine hanno sottolineato quanto definire un film art horror o elevated horror sia elitista e svilente nei confronti del genere cui si riferisce, come se i film horror che non fanno parte di questo genere non abbiano valore artistico con buona pace di Shining, L’esorcista, Nosferatu e compagnia bella, i quali hanno il difetto di essere “solo” dei film horror.

Sta di fatto che a partire dall’inizio/metà degli anni ’10 del nostro secolo c’è stata una crescita esponenziale di film che facilmente possono essere identificati in un genere alla maniera dei film di mostri della Universal usciti tra i ’20 e i ’50 del Novecento. E così si possono individuare alcune case di produzione che si sono fatte portatrici di questo filone: la A24 su tutte. L’approccio di Altman a certe faccende ha sopratuttto il merito di tener conto non solo dei testi ma anche dei paratesi, per cui dare un’occhiata alle locandine di certi film è uno strumento che può far parte dell’arsenale del critico. La parola chiave è “accattivante”: le locandine dei film horror degli ultimi 10 anni sono lucide, al neon, simmetriche e/o pulite visivamente.

Ancor più delle locandine però è importante dare un’occhiata ai film. Non è negli interessi di questo articolo analizzare, anche brevemente, ogni singolo horror uscito dal 2010 a oggi: basti la piccola suggestione visiva di una serie di fotogrammi caratterizzati da formalismo esasperato nella composizione o nei colori. Queste affermazioni non sono volte a svilire ognuna di queste opere: al di là del loro valore estetico è importante prendere consapevolezza del manierismo affermatosi nell’ultimo decennio tra i registi di questi horror colorati, diurni, anemici, silenziosi.

Men di Alex Garland si presenta come l’ennesima espressione di questo elevated horror (stavolta lo uso volutamente in senso dispregiativo). Questa maniera, che ancora in film come Annientamento era tutto sommato tenuta a bada, pervade il film avvelenandone ogni aspetto, da quello più squisitamente formale a quello contenutistico. Per quest’ultimo aspetto si veda soprattutto la recensione de I 400 calci, intitolata sarcasticamente Venite donne che vi spiego Men di Alex Garland e che si esprime compiutamente nella frase, ancora più sarcastica, che fa: «La guerra al patriarcato è comunque guerra, e la guerra è un lavoro da uomini». Se il film presenta qua e là quel curioso scardinamento spaziale che aveva caratterizzato Annientamento5, tale per cui il semplice – ma calibratissimo – cambio di un punto macchina o di un obiettivo, movimento o taglio di montaggio, dà la sensazione che la destra e la sinistra si confondano, gli oggetti sembrino prima piccoli e poi soverchianti (è il caso della sequenza in cui Harper si trova davanti alla galleria), la tecnica non è perseguita con convinzione, così che il labirinto mentale della protagonista rimane tale senza riversarsi sull’ambiente circostante. Certo, in Annientamento l’effetto di straniamento, così come i cromatismi esagerati, sono frutto degli effetti di una misteriosa e aliena Area X: qui invece Garland si limita a tinteggiare d’arancio (il colore d’elezione dell’elevated horror, tra l’altro) e di rosso le pareti di una casa/mente di un personaggio alle prese con una frattura interiore – e infatti poco interessa al regista definire psicologicamente la sua protagonista. Se a questo si aggiunge una tendenza ossessiva a indugiare con l’occhio della cinepresa, il danno è fatto: Garland osserva, indugia, osserva e indugia, i cori angelici della colonna sonora elevano tutto, ogni cosa, dal più intenso dei momenti al più sciocco dei movimenti, coronando qualche bella intuizione in sequenze sparse. Ogni inquadratura di Men, infatti, deve essere pittorica (così vuole il genere elevated), con pesi bilanciatissimi, direttive sempre simmetriche, contrasti distribuiti equamente, blu e arancio, arancio e blu; ogni movimento deve essere lento in nome di una contemplazione fuori luogo.

E non ci si dimentichi dei simboli: esseri del folklore, are pagane in pietra con rilievi di spiriti ancestrali a cui sono dedicate apposite inquadrature con faretti su fondo nero, mele strappate a un albero (con tanto di battuta che lascia cadere persino il suo banalissimo senso biblico). E, ancor più grave, l’affettatissima struttura su cui è fondato il tutto, tradita e palesata in un paio di momenti che spaccano le caviglie del film e lo condannano a un’ultima ora di strascichi e versi che sarebbe stato meglio non riuscire a decifrare.

Si rende necessario, a questo punto, svelare il mistero del film per osservare come l’opera di Garland crolli miseramente nella seconda parte. Dunque: Harper arriva in questa bella casa di campagna in cui dovrebbe stare per un paio di settimane per cercare di elaborare la morte di suo marito suicidatosi perché mollato dalla donna. Nel paesino incontra una serie di personaggi molto strani, a partire dal padrone di casa, Jeffrey. Questi uomini (un ragazzino, un prete, un uomo nudo che sembra perseguitarla, Jeffrey, il barista del pub, un poliziotto) sono interpretati dallo stesso attore ma resi irriconoscibili da un trucco e un parrucco eccezionale (meno eccezionale la performance vocale dell’attore che tradisce leggermente il giochetto). Il lavoro di truccatori e costumisti si schianta però contro il lavoro degli artisti digitali che, alle prese col corpo del ragazzino, a cui sono dati dei tratti somatici degli altri personaggi, inciampano in una resa non proprio ottimale. Nel momento in cui il ragazzino compare, ecco rompersi la magia: «Aspetta un po’, questo ragazzino somiglia al prete e a Jeffrey. Vuoi vedere che è lo stesso attore e che tutti questi uomini li sta solo immaginando?». Inizia quindi un processo per cui si cerca di ritrovare, nei volti dei successivi personaggi, gli elementi di somiglianza che a questo punto vengono lentamente a galla. Il tutto poteva essere gestito – viene da pensare – evitando la presenza del ragazzino e sostituendola con un uomo, così da facilitare il lavoro ai truccatori. Perché non è stato così? Perché l’elevated horror non può vivere senza un’enorme metaforone che elevi il film e lo faccia passare dall’essere un banalissimo horror a una vera e propria opera d’arte. Dunque il ragazzino deve stare lì perché simboleggia qualcosa, un carattere maschile; e così il prete ne simboleggia un altro, e l’anfitrione un altro ancora, e il poliziotto e bla bla bla.

Durante una scena d’aggressione, Harper taglia in due il braccio di uno degli uomini, spaccandolo a metà dall’avambraccio fino alle dita della mano. Rottosi il meccanismo misterioso di cui s’è parlato al paragrafo precedente, non ci vuole molto a capire che anche gli altri uomini avranno, automaticamente, la mano aperta in due. Ecco dunque che il colpo di scena avviene con un ritardo di parecchie sequenze. Non è questo però il punto peggiore della faccenda. A far crollare tutto è proprio il dettaglio della mano spaccata (a cui si aggiunge successivamente una caviglia spaccata): proprio come la mano del marito di Harper dopo il volo dal palazzo. Ecco dunque che, a 20 minuti dalla fine, il “parto multiplo”, ironicamente, muore in principio: ogni uomo incontrato nel film partorisce la sua “altra versione” fino all’ovvio parto finale in cui, ad uscire, è proprio il marito di Harper. «Guarda cosa mi hai fatto» dice lui facendo leva sul senso di colpa di lei. «Cosa vuoi da me?» lei chiede; «Il tuo amore» dice lui. Fine (?).

Non lo si ripeterà mai abbastanza: il simbolo ha una sua ragion d’essere solo quando viene data lui la possibilità di espandersi (e quindi rispettando la sua illegibilità e indefinibilità – in altri termini: la sua universalità) o quando parte di un sistema narrativo/figurativo solidamente delinato (come accade in Midsommar, un altro film del filone). Se esso è semplicemente subordinato a una qualche posa per cui l’autore si inserisce di prepotenza in una maniera che non gli è propria (e che probabilmente gli è imposta da una produzione esigente) non si può sperare di trarne qualcosa che non sia un ingombrante orpello scenografico/narrativo. Il termine poser/poseur è particolarmente azzeccato per Garland in questo contesto: il regista è in abiti che lo definiscono (=ingabbiano) in un ambiente che però non gli appartiene. Chi gira un film di genere con l’intenzione di girare un film di genere spesso non è diverso da chi produce un normale oggetto di consumo che ha una vita brevissima e assolve al suo compito in un tempo e in condizioni particolarmente ristrette – non che questo sia necessariamente un male, ma non la si chiami arte. L’opera d’arte non nasce per essere opera d’arte, nasce da un’esigenza spirituale che può manifestarsi in quelle etichette che convenzionalmente sono state definite generi; può fare uso di tecniche diverse, trattare tematiche diverse, avere – nel caso del cinema – durate diverse: queste variabili non vengono date a priori, non sono condizioni di possibilità per l’esistenza dell’opera d’arte, semmai diventano a posteriori elementi intoccabili che fanno dell’opera d’arte un’opera d’arte.

Qui invece sembra che l’arte (=l’idea che i produttori o chicchessia hanno dell’arte) sia stata ficcata dentro un ricettario a uso dei registi di cinema horror. E questi, anche quando talentuosi e portatori di idee interessanti (come Garland), si limitano, con le loro dovute peculiarità stilistiche, ad adattare le proprie opere al manualetto, convinti che per elevare basti seguire un percorso tracciato sul quale alcuni autori dotati si sono mossi e hanno prodotto opere di rilievo. Bisogna scavalcarli, procedere lateralmente, sottoterra, al contrario: ovunque, purché non ci si vesta come loro.


Bibliografia

1 Rick Altman, Film/Genere, Milano 2014, p. 84.
2 Ivi, p. 90.
3 Ivi, p. 91.
4 Ivi, p. 95.
5 Lo fa notare Aldo Fresia nella puntata 287 del podcast Ricciotto – Il cinema dalla parte giusta.

Nicholas Barber, Is horror the most disrespected genre?, BBC, 2018.
Lor Gislason, Why Elevated Horror Is an Unnecessary and Elitist Term, 2021.
Jacob Knight, There’s No Such Thing As An “Elevated Horror Movie” (And Yes, ‘Hereditary’ Is A Horror Movie), Slashfilm, 2018.
Quantum Tarantino, Venite donne che vi spiego Men di Alex Garland, I 400 calci, 2022.

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