Nessun uomo è un’isola.

An elephant sitting still (Da xiang xi di er zuo, 2018, 230′) – Hu Bo.

Ero sicuro che fosse molto molto forte, non solo fisicamente. No, era molto fragile, era molto sensibile, ascoltava le persone, capiva le persone ed era molto tenero. […] Sono profondamente dispiaciuto ma l’ho perso e tutti noi abbiamo perso un ragazzo molto talentuoso, riconoscente, un grande ragazzo, e sono sicuro che al cinema cinese mancherà per sempre. [1]

È importante fare una premessa prima di approcciarsi al film: Hu Bo si è suicidato il 22 ottobre 2017, subito dopo il completamento di questo suo primo/ultimo lungometraggio. È chiaro – e comprensibile – che la consapevolezza di questa realtà muova la mente di ogni spettatore a percepire l’opera in un certo modo. Posto il fatto che non c’è assolutamente nulla di male in tutto ciò, è bene anche tener presente che questa può diventare una trappola se non trattata con criterio. È vero infatti che, se da una parte il suicido del regista (e quindi la sua condizione prima della morte) dia una sorta di “chiave di lettura” del film, dall’altra si può facilmente incappare in una sovralettura dell’opera che pone l’evento legato ad essa come base da cui partire per ogni considerazione in merito. Fatta questa premessa dunque si tenga bene a mente che non si vuole assolutamente evitare di considerare questo fattore (che, purtroppo, è preponderante nel film stesso); si cerca, semplicemente, di non lasciare che esso trasporti l’intero percorso dell’articolo.

Le parole riportare all’inizio dell’articolo sono di Béla Tarr, tratte da un breve discorso tenuto in occasione di un Q&A al Toronto International Film Festival; le parole di uomo chiaramente provato e commosso, supervisore di Man in the well (Jing li de ren, 2016, 16′). Partire proprio da Tarr e dal suo cinema sembra una maniera adatta per entrare nella struttura di An Elephant sitting still.
Con quello che sembra un riarrangiamento della colonna sonora de Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000, 145′) inizia una pellicola che getta da subito le basi di una forma alla quale si attiene per tutta la sua durata e che costruisce – con quiete e saggezza non comuni per un regista alle prese col suo primo lungometraggio – un edificio all’interno del quale ogni individuo è isolato e chiuso nella sua asfissiante bolla. Se infatti da una parte si potrebbe considerarlo un film corale, An elephant sitting still non ha le vere e proprie caratteristiche del coro: i personaggi principali (che non saranno chiamati protagonisti nell’articolo – non sarebbe corretto) sono delle isole, non dei paesi confinati; per quanto possano far parte di un mare comune essi non sono realmente in contatto tra di loro, se non nella volontà di andare via dal luogo in cui si trovano per andare a guardare un elefante che, isolatosi, ha deciso di non muoversi più.

Ciò che si potrebbe definire corale nel film è, se si vuole, il tragico concatenarsi degli eventi attorno a questi personaggi: ogni evento, infatti, è causa di tanti altri eventi (messi in luce con scelte narrative incredibilmente funzionali) che riportano le ragioni di qualunque accaduto a circostanze che, prese singolarmente, possono risultare davvero insignificanti. Ecco che la messa in moto della vicenda “principale” del film è la morte di un ragazzo spinto erroneamente dalle scale da uno dei personaggi: situazione, questa, che si è venuta a creare in seguito al furto da parte dell’amico del personaggio del cellulare del ragazzo ferito, a causa della presenza in esso di video che lo riprendevano di nascosto mentre urinava. Per farla breve (e soprattutto per schematizzare una dinamica piuttosto complicata da spiegare a parole – si noti però che questo schema può essere applicato ad ogni altro evento del film, sostituendo semplicemente gli elementi di causa-effetto):


C è stato filmato da B; C ruba il telefono di B; B minaccia C per avere indietro il telefono ma C nega di averlo rubato; A (il personaggio principale da cui parte la storia) vuole difendere C perché crede che C non abbia rubato il telefono; B minaccia A ma erroneamente viene spinto e cade dalle scale (poco dopo morirà). Se si volesse esprimere in maniera barbara la situazione si potrebbe dire che A è un assassino a causa del fatto che B ha filmato C mentre urinava.


Si potrebbe leggere in queste dinamiche uno degli elementi fondanti dell’ipotetico “coro” di An elephant sitting still, eppure esse si vengono a creare in maniera assolutamente naturale (e dunque casuale), respingendo l’idea di un’architettura impostata a priori dal cosmo. Al mondo ciò accade perché è così che funziona la vita: un assoluto ordine del caos. Allo stesso modo ogni personaggio, nel suo isolamento, è in qualche modo contrapposto (per etica, passato, intenzioni e sentimenti) ad un altro, mettendo in luce la complessa articolazione di un’opera che cela egregiamente la sua complessa struttura interna: «ars est celare artem».

Ancora memore – seppur piacevolmente differente – del cinema di Béla Tarr e di quello del Gus Van Sant di Gerry (2002, 103′) è il movimento di macchina, il senso del tempo, il ruolo del regista/spettatore nei confronti della scena: la macchina da presa come testimone non-presente. Ogni personaggio del film viene seguìto da dietro a distanza piuttosto ravvicinata e, come un non-personaggio extra nella scena, la mdp assiste alle vicende non elevandosi al di sopra di esse ma facendone parte (qui è una delle differenze più importanti con i due registi sopra citati); allo stesso tempo essa non agisce come un reale protagonista ma sembra essere costretta dallo stesso Hu Bo a non mostrare e a mettere a fuoco solo determinati elementi; ecco dunque che episodi di violenza come l’aggressione di un cane verso un altro cagnolino non vengono direttamente osservati dalla mdp: essa preferisce (oppure, semplicemente, non può fare altrimenti) indagare il volto dell’anziano padrone della vittima intento a scacciare l’animale.
In maniera più evidente in ogni dialogo del film solo una delle due parti in gioco è messa a fuoco, distante dal suo interlocutore sotto tutti i punti di vista; dunque non è possibile parlare di una presenza della mdp intesa come personaggio-in-più che guarda lo svolgersi delle azioni ma di un non-personaggio che in seconda persona osserva il soggetto protagonista della sequenza restituendo una soggettiva che è passata attraverso un’altra soggettiva, quella della macchina da presa:


Non più: A (in soggettiva) guarda B (a fuoco, chiaramente); neppure: MDP guarda A che guarda B, entrambi a fuoco; in An elephant sitting still MDP guarda esclusivamente A (a fuoco) il quale guarda B (fuori fuoco); spesso: MDP guarda esclusivamente A (a fuoco; primo piano) che guarda B fuori campo.


La distanza tra questi personaggi-isola è, in definitiva, anche cinematografica, spaziale e prospettica. Non c’è modo per costoro di raggiungersi, ogni elemento del cosmo contribuisce al loro allontanamento e isolamento. Non è certo da sottovalutare sotto questo punto di vista l’abilità narrativa del regista nell’orchestrare con grazia una tale mole di eventi e personaggi che nei modi più svariati intrecciano le loro strade e le loro vicende, tra violenza, cattiveria, miseria e indifferenza; in quest’ultima risiede uno dei tratti più caratteristici di An elephant sitting still e della scrittura dell’autore: vi è una sorta di silenzio di fondo, di freddezza e distacco. Esemplare il fatto che non venga mai mostrata (se non in un paio di occasioni nell’arco delle quasi 4 ore di durata del film) della cruda violenza, forti urla oppure qualsivoglia genere di accelerazione di ritmo nelle azioni dei personaggi e, più in generale, negli eventi. Uno degli anziani personaggi incarna chiaramente il sentimento di disillusione permeante il film: egli non crede nella possibilità di migliorare la propria condizione né quella dei giovani ragazzi con i quali si confronta. Quello di Hu Bo è purtroppo un richiamo non udibile, di un uomo timido e tenero (come lo ha definito Tarr nel suo discorso), confinato sofferente nella propria isola.

Scriveva John Donne nel 1624:

Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te. [2]

La tragica scomparsa del regista non fa che mettere ancora di più in luce, purtroppo, la sua condizione di isola. Ciò che rimane è il dramma di ogni uomo:

Voglio che tu capisca che le nostre routine quotidiane sono sempre rimaste uguali, attraverso tutte le epoche. Non devi sentirti confusa. L’umanità… non cambieraà con l’avanzare del tempo. La vita… non migliorerà mai. È tutta una questione di agonia… di agonia. Questa agonia ha avuto origine nel momento in cui sei nata. Pensi che andare in un altro luogo potrà cambiare il tuo destino? È solo una stronzata. Nuovo luogo… nuove sofferenze.

Di certo Hu Bo adesso non è più un’isola; ancor più certo è il fatto che An elephant sitting still non lo sia. Questa è un’opera che abbraccia tutti, che invita a non mollare e che spinge ad andare a guardare questo fantomatico elefante, non nella speranza di trovare qualcosa di meglio in un luogo nuovo ma nella consapevolezza di essere riusciti ad alzarsi e partire; dopotutto il primo passo è alzarsi, no?

Alla fine del giorno (questa è la durata della vicenda) l’elefante barrisce; tutti lo sentono; tranne Hu Bo.


Riferimenti bibliografici:
  • [1] https://www.youtube.com/watch?v=O9Q91x4EQjg
  • [2] JOHN DONNE, Devozioni per occasioni d’emergenza, Editori Riuniti, Roma, 1994.
  • Invito anche alla lettura dell’articolo di Federico Querin (su Shiva Produzioni).

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